Ricordo ancora molto bene quella stanza e credo che non la dimenticherò mai più. Misurava circa quattro metri per sei. Era ammobiliata in modo da sembrare un ambiente ospitale per i bambini e sulle pareti chiare erano appese una lavagna di ardesia, una più piccola di colore bianco, di quelle su cui si scrive con i pennarelli e un arazzo dalle forme astratte. Al centro del pavimento in parquet c'era un tavolino di legno, dipinto di rosso, con le gambe corte per potersi mettere in ginocchio a disegnare. Anche all'asilo ne avevano di simili. Poi c'erano un paio di sedie di plastica, una strana poltrona a dondolo e una libreria a scaffali modello Ikea, su cui, con un certo ordine, erano infilate decine di libri pieni di figure. Un angolo della stanza ospitava una bella scrivania. Era severa, di legno scuro, con qualche spigolo di troppo. Più adatta agli adulti. Così come la sedia con cui faceva coppia. Infine un'alta lampada a stelo e una seconda poltrona, sinuosa e con la seduta vicino a terra. L'unica finestra, opposta alla porta d'ingresso, dava sulla via che si allungava qualche piano più in basso. Quella che a una prima impressione poteva essere scambiata per una semplice stanza dei giochi - c'erano gessetti, libri colorati, pennarelli, matite e qualche giocattolo - a una più attenta valutazione nascondeva una sua diversa identità. La scrivania per esempio destava qualche sospetto. Troppo formale. Messo in allerta, lo sguardo non poteva allora che volteggiare alla ricerca di qualche altro indizio. Ed eccolo lì! Una telecamera. Il suo occhio nero e vuoto era puntato in modo da coprire con la sua vista indagatrice tutto il locale. Mi sono accorta presto, forse non subito, di questi particolari fuori posto. Ci avevano raccontato che sarebbe stato divertente, eppure qualcosa non quadrava. Chissà quanti, tra i bambini che hanno transitato tra quelle mura, sono rimasti straniati, cogliendo i segni di una realtà oltre la realtà. Una dimensione che genera diffidenza, come potrebbe essere una trappola mimetizzata sotto un fascio di rami. O come uno di quegli espedienti fatti in casa dai genitori che cercano di sotterrare la pastiglia amara sul fondo del cucchiaio, sotto uno spesso strato di zucchero. Il dubbio si fa più concreto col passare del tempo. La stanza accoglie i suoi ospiti. Entrano finalmente i bambini, un po' intimiditi dalle tante novità. Nel loro sguardo spaesato passa una luce di entusiasmo non appena si accorgono dei giochi. Si rilassano, abbandonandosi alla fiducia nei grandi, che forse questa volta non hanno usato a vuoto le solite vaghe perifrasi del tipo: "Andiamo in un posto a trovare una persona". "Vedrai che ci sono tante cose belle".
Che cosa ci faccio qui?", "Perché mi hanno portato a giocare in questa stanza?" sono le nostre remote domande, ma presto questi interrogativi vengono assorbiti dalle distrazioni. I bambini non sono mai soli. Ci sono anche gli adulti. Quel giorno c'erano tre donne per la precisione. Due di loro non le avevo mai viste prima. Nessuno le conosce all'inizio. Ci vuole tempo. Perché quei volti si ripetono anche nei giorni seguenti. E' il loro lavoro. "Ma che lavoro fanno per l'esattezza?" mi chiesi più di una volta nella mia testa. La terza donna invece la conoscevo molto bene. Mi aveva dato alla luce. Mi aveva nutrita e cresciuta. Si era occupata di me in ogni istante della mia vita, per le cose importanti e per quelle più futili, senza mai lasciarmi da sola ad affrontare un'esistenza più grande di me. Finalmente la potevo rivedere e riabbracciare. Eppure non sarebbe stato un lieto fine, perché al termine dell'ora dedicata, mi avrebbero obbligato a salutarla ancora una volta e la consapevolezza di questa insolita prassi, già mi toglieva gran parte della serenità e della gioia che avrei dovuto provare rincontrandola.
Ciao mamma! Arrivederci mamma!
"Ma a quando?", "E perché dobbiamo stare lontane?"
A queste domande per me non esisteva risposta. Poi si chiedono perché uno si chiude a riccio! Eravamo io e mia sorella, più piccola di me di due anni. Forse meno consapevole, ma si sa: lo stelo del fiore è più sottile e rischia di spezzarsi nel vento. In quella breve ora, che a dire il vero mi sembrava persino troppo lunga, si rideva e si ballava. Si scherzava e si leggeva. Si disegnava e si raccontava. Si potevano fare tanti giochi di fantasia. Eppure qualcosa continuava a non tornare. Era la scrivania? O era la telecamera attraverso cui ci chiedevamo chi ci stesse guardando? Forse erano quelle due signore annoiate che se ne stavano in disparte, silenziose, in apparenza intorpidite, ma vigili. Una di loro ogni tanto prendeva appunti, ma non era chiaro se stesse completando un cruciverba oppure fosse realmente interessata agli attori nella stanza. Forse era lo sguardo malinconico della mamma, che lei cercava amabilmente di seppellire sotto continui sorrisi e manciate di buonumore. Ma in quegli occhi scorgevo pozzi senza fondo. Oppure eravamo noi, io e mia sorella, che legate ai polsi e alle caviglie dai fili invisibili che si usano per i burattini, non ci eravamo lasciate sedurre da quell'esca indorata che luccicava, ma che senz'altro non era d'oro? No. Avevano provato a conquistarci con i loro giochi, facendo leva sulla nostra ingenuità di bambine, ma avevano tralasciato troppi particolari rivelatori. Forse la prima volta, disorientate e gettate in quel mondo nuovo, avevamo ceduto al fascino superficiale dei giocattoli; ma già dalla seconda visita ci era chiaro che si trattava solo di una fiaba mal scritta e che la verità era un'altra. Eravamo in una prigione che tentavano di spacciare per un parco giochi. Noi o nostra madre - probabilmente dipendeva dai punti di vista - eravamo i detenuti che si vanno a trovare in quegli squallidi stanzoni delle carceri, persino con minore rispetto della privacy. Ci osservavano. Ci studiavano. Ci esaminavano. Dovevamo incontrare la mamma e giocare con lei. Perché lì? Perché in un tempo definito? Perché sotto stretta sorveglianza? Tutte domande da cui sarebbe quasi meglio prendere le distanze, perché la realtà che prende corpo dalle relative risposte è per i bambini assurda e per gli adulti difficilmente comprensibile. Dicevano di farlo soprattutto per noi. Per me e mia sorella. Per noi bambini. Era una concessione con cui il Sistema ci veniva incontro. Quasi un dono, che si diceva però, a bassa voce, non fosse per nulla gratuito. Nostra madre era un assassina? Era una squilibrata? Era una persona affetta da qualche malattia virale e altamente contagiosa? So solo che era la nostra mamma! Eppure volevano tenerci lontani e se proprio dovevamo vederla, era meglio assumere tutte le precauzioni del caso, come si fa con una tigre allo zoo. Quelle del Sistema erano persone coscienziose e preparate e tentavano di tutelarci con ogni mezzo. Ci dicevano di stare serene, che tutto sarebbe andato bene e con noi usavano i guanti bianchi. "Fidatevi! Non vi preoccupate. Sappiano noi cosa è bene per voi!" Perché allora, quando nei tardi pomeriggi invernali veniva il momento di salutarsi e infilavamo i cappotti, il freddo e il buio che si addensavano nel mio cuore erano molto più intensi di quelli che mi aspettavano all'esterno, oltre i vetri di una finestra che dava sul nulla?
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IN VITRO VERITAS
General FictionLa superficie riflettente mostra il volto sotto la maschera, perché in vitro veritas