Inferno

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1. INFERNO

“Qui possiamo regnare sicuri, e a mio parere
Regnare è una degna ambizione, anche se all’inferno:
Meglio regnare all’inferno che servire in paradiso.”
(John Milton, Il Paradiso Perduto)
 
Due settimane dopo, Londra
Ariadne aveva sempre pensato che il suo peccato più grande fosse stato aver ucciso suo padre. Dopo quella notte, che aveva cambiato la sua vita, era stata perseguitata dagli incubi che l’avevano fatta svegliare con le lacrime agli occhi. Era paura, ma non rimorso. Non provava dispiacere per quanto aveva fatto: suo padre era un uomo violento e meschino, lei aveva soltanto anticipato la sua dipartita.
Negli anni successivi quel ricordo si era affievolito. Non ricordava più bene il sangue sulle mani, né l’espressione di suo padre mentre si accasciava per terra, né tantomeno riusciva a ricordare le urla di sua madre.
Le cose, però, di recente erano cambiate. Da quando Tommy era morto la sua vita non era stata più la stessa. Di notte sognava morte e distruzione, di giorno mangiava a dismisura per alleviare il dolore.
Seneca sosteneva che il grande dolore è muto, e Ariadne se ne convinceva ogni giorno di più.
Più soffocava le lacrime, più il peso sul petto si faceva pesante.
“Signorina, vi sentite bene?” domandò la cameriera.
Ariadne sbatté le palpebre e fissò il proprio riflesso nello specchio: pelle pallida, cerchi viola sotto gli occhi, labbra screpolate e sguardo perso. Il ritratto della disperazione.
“Sì. A che ora passerà a prendermi l’autista?”
“Alle dieci l’auto sarà qui. Alle undici inizierà la celebrazione.”
La celebrazione in questione era il matrimonio. Quel giorno Ariadne avrebbe sposato Mick King come era stato pattuito con sua madre.
Come un usignolo che viene rinchiuso in gabbia e non può più cantare, così Ariadne sarebbe stata imprigionata e non avrebbe più potuto vivere.
“La signorina King torna per le nozze?”
Rachel King, l’adorata sorella minore di Micky. Un metro e cinquanta di pura energia e risata contagiosa. Ariadne la conosceva solo attraverso i racconti dei domestici, e sembrava essere una ragazza amabile. Sperava che almeno con la cognata potesse andare d’accordo. A volte stentava a credere che una ragazza così perbene fosse la sorella di uno spietato gangster.
“Sì. Non ricordate? E’ tornata ieri sera dall’India e si è fermata a Manchester per la notte. E’ previsto che all’alba prenda il treno per Londra.”
“Prepara la camera migliore per la nostra ospite. Voglio che abbia tutti i comfort possibili.”
“Sì, signora.”
La cameriera fece un ceno del capo, depose la spazzola e si congedò chiudendo la porta.
Ariadne si guardò ancora allo specchio, i ricci rossi sembravano del colore del sangue secco. Fece un lungo respiro e si preparò a fingere di essere la signora King.
 
Il porto di Londra puzzava di pesce avariato e di pece stantia attaccata al fondo dei barattoli. Nadina ormai era abituata a quell’olezzo, anzi quell’odore acre le ricordava casa sua. Essere una gipsy la costringeva a spostarsi sempre, ma non avrebbe mai dimenticato l’odore della terra sulla quale era nata e cresciuta per i primi cinque anni della sua vita.
Londra non le piaceva, troppo grande e caotica per i suoi gusti. Preferiva immensi boschi silenziosi, ruscelli mormoranti e colline fresche. Ma sua nonna Olga aveva bisogno di denaro per mandare avanti la famiglia, così avevano acquistato (o meglio, rubato) una barca con la quale pescavano per poi vendere il raccolto al mercato.
“Quelle reti non si sistemano da sole.” Brontolò il nuovo arrivato.
Nadina lo trucidò con lo sguardo e sputò a terra. Nessuno poteva dirle cosa fare e quando farlo.
“Questa è la mia barca e quelle sono le mie reti. Qui comando io, quindi tu fai quello che ti ordino. Intesi?”
L’uomo non la degnò di uno sguardo. Era un tipo schivo e riservato, fumava e beveva whiskey per la maggior parte del tempo. Lavorava come un mulo, aveva una forza nelle braccia che stupiva Nadina e sua nonna.
“Sissignora.”
“Tutti i giorni mi chiedo perché ti abbiamo salvato.” Disse Nadina, scocciata.
“Perché avevate bisogno di uno che facesse il lavoro duro.” Replicò l’uomo.
“Lo sai che i miei fratelli sono impegnati in certi…affari.”
L’uomo accennò una risata, un suono prodotto dalle narici. Gli ‘’affari’’ di cui parlava la ragazza erano legati alla criminalità. I fratelli di Nadina si occupavano di vendite illegali di qualsiasi prodotto, dai sigari cubani all’alcol, dai gioielli trafugati a dipinti d’autore.
“Loro si occupano degli affari mentre tu vendi pesce al mercato. Non ti sembra una ingiustizia?”
La ragazza si sedette sul bordo della barca e incrociò le braccia, faceva così quando un argomento le sembrava spinoso.
“Io aiuto la mia famiglia.”
L’uomo lasciò cadere la rete e ne prese un’altra per distenderla e ripulirla dalle tracce del pescato precedente.
“I tuoi fratelli sono degli idioti. Si fanno rubare un sacco di soldi.”
“Davvero?”
“Ieri hanno venduto un quadro di Modigliani a un prezzo stracciato quando sul mercato vale il triplo.”
“Ti intendi in arte?” lo derise Nadina.
L’uomo sospirò e rivolse uno sguardo al mare, poi tornò a lavorare sulla rete.
“Conoscevo una persona che si intendeva di arte.”
“E questa persona può aiutarci a fare soldi?”
“No. Lei non c’è più.”
 
Tre mesi prima, poco distante da Birmingham
Nadina accarezzava la superficie dell’acqua con la punta del dito disegnando figure immaginarie. Era uscita all’alba per lasciare il porto di Londra e pescare in altre acque. In realtà aveva bisogno di allontanarsi dalla capitale dopo aver infranto il cuore di tre ragazze soltanto quella settimana. Sua nonna diceva sempre che prima o poi avrebbe trovato una donna capace di spezzare il suo, di cuore. Nadina rideva e faceva spallucce. Non si era mai davvero innamorata, nessuna si era mai avvicinata tanto al suo cuore, perciò non c’era alcun pericolo di rottura.
Mentre la barca procedeva fuori da Birmingham, Nadina canticchiava e distendeva le reti per pescarle. Si era appena immessa nel canale di Stratford quando vide qualcosa galleggiare nell’acqua. A primo impatto pensò che fosse un grosso pesce, e ci avrebbe guadagnato una bella somma al mercato. Poi si accorse che si trattava di un cappotto nero. Era una persona che galleggiava con la faccia rivolta verso il basso.
“Mi allontano da Londra e becco un cadavere. Che meraviglia.” Mormorò fra sé.
Si avvicinò al corpo e notò che si trattava di un uomo, considerata la pettinatura cortissima e le mani tozze. Nadina allungò le mani e lo tirò per le spalle più forte che poté. Dopo svariati tentativi e una miriade di bestemmie, riuscì a portare l’uomo sulla barca.
“Amico, svegliati! Ehi!”
La ragazza lo schiaffeggiò sul viso, poi gli diede un paio di pugni sul petto per far uscire l’acqua accumulata nei polmoni. Di colpo l’uomo sputò dalla bocca e spalancò brevemente lo sguardo, due occhi azzurri come il cielo senza nuvole.
Nadina balzò all’indietro per lo spavento. Sembrava davvero un cadavere tornato in vita.
“Do-do…v-“ Provò a dire l’uomo.
“Ti trovi a pochi chilometri da Birmingham. Sei caduto nelle acque del canale.”
L’uomo annaspava in cerca di aria. La sua pelle era trasparente e raggrinzita, i suoi abiti pesavano a causa dell’acqua.
“Io sono Nadina. Tu ricordi il tuo nome?”
L’uomo la guardò con gli occhi fuori dalle orbite. Non ricordava il suo nome, né come fosse finito nel canale. Poi all’improvviso un ricordo gli trafisse la mente: una ragazza dai ricci rossi che lo chiamava e rideva.
“T-tom.”
Nadina gli diede una pacca sulla spalla e si spostò per muovere il timone della barca.
“Bene, Tom, adesso ti porto a casa mia.”
 
Ariadne fissava le bollicine che salivano e scendevano nel suo bicchiere di champagne. Era un modo per distrarsi dalla festa sfarzosa che Mik aveva organizzato per il loro matrimonio.
Mentre gli invitati mangiavano e ballavano, lei se ne stava seduta con lo sguardo perso.
“Mia cara, ti senti bene?”
Rachel prese posto accanto a lei e le diede un leggero colpetto alla mano. Era una ragazza dal viso paffuto e rotondo, circondato da due ricci biondo cenere che facevano risaltare gli occhi scuri. Aveva un sorriso talmente dolce che Ariadne si sentì un poco rincuorata.
“Sto bene.”
“Questa è una bugia bella e buona!” ridacchiò Rachel.
Ariadne gettò un’occhiata alla sua sinistra e vide che la madre stava sorridendo a tutti gli invitati come era consuetudine. Era una perfetta padrona di casa, soprattutto se la sposa non era affatto interessata alle sue stesse nozze.
“Sono soltanto stanca. Il matrimonio è sfiancante.”
“Oh, Ariadne, basta mentire. Lo so che questo matrimonio è combinato. Mio fratello pensa solo agli affari, non mi aspettavo certo che si sposasse per amore.”
“E’ così che va la vita per noi donne. Non siamo mai davvero libere. Dalla famiglia d’origine passiamo nelle mani dei nostri mariti.”
Rachel sospirò, era ingiusto che una ragazza come Ariadne soffrisse tanto.
“Mia cara, non essere tanto severa con te stessa. Non è colpa tua se sei finita in questa situazione.”
“Invece sì. Ci sono azioni che ho commesso per cui adesso sto pagando un caro prezzo.”
“Nessun prezzo sarà mai abbastanza alto per quello che hai commesso.”
Marianne Evans torreggiava alle spalle delle due ragazze. Come un corvo, era abbigliata a lutto come sempre e i suoi capelli erano tirati in uno chignon strettissimo.
“Nessuno meglio di te conosce i miei debiti, madre.” Replicò Ariadne.
“Ogni madre conosce i peccati della propria figlia.”
Rachel rimase stupita dallo scambio di battute fra madre e figlia. Il rancore e l’odio sgorgavano dalle parole di entrambe.
“Sono certa che Ariadne riuscirà a fare ammenda.”
Marianne abbassò lo sguardo velenoso su Rachel e fece una smorfia di disprezzo.
“Mia figlia è solo una incapace. Al massimo può sperare di non essere scacciata come un cane randagio anche dal marito.”
Ariadne si alzò di scatto, lo strascico del vestito seguì i suoi movimenti come una biscia silente.
Si voltò verso la madre e avvicinò la bocca al suo orecchio perché Rachel non ascoltasse.
“Come ho ucciso quel lurido bastardo di tuo marito, io posso uccidere anche te. Buon proseguimento di serata, madre.”
Ariadne afferrò la bottiglia di champagne e si diresse in giardino sotto gli sguardi increduli di alcuni invitati.
 
La vita a Ballintoy era una delle esperienze peggiori che Julian avesse mai vissuto. Era un villaggio piccolo e abitato da poche persone, e tutto intorno vi erano soltanto strapiombi rocciosi e mare. Ovunque guardasse c’era l’acqua. Temeva che un giorno vi sarebbe potuto annegare anche solo con lo sguardo.
Mentre Rose aveva trovato impiego presso una panetteria, lui era ancora disoccupato. Passava intere giornate a zonzo per il villaggio ed entrava nella prima locanda che incontrava per bere. Si dava all’alcol anche di mattina, almeno gli permetteva di annebbiare la mente e smettere di pensare per un po’.
“Julian, ti senti bene? Julian?”
La voce di Rose lo ridestò dai pensieri. La cenere della sigaretta gli era caduta sui pantaloni bucando la stoffa. Era così che il giovane si sentiva dentro, un buco al posto del cuore da quando Ariadne era andata via.
“Sto bene. Non preoccuparti.”
“Come faccio a non preoccuparmi quando non fai altro che bere tutto il giorno?”
Rose si sedette sul divano con lo straccio umido sulla spalla. Aveva da poco finito di cenare e non si erano scambiati mezza parola. Ormai quella era la loro routine, condividere la casa ma non l’amore.
“Di notte non bevo perché dormo.” Replicò lui con un sorriso.
La ragazza ridacchiò, lui riusciva sempre a divertirla.
“Ariadne non vorrebbe questo per noi. Ci ha mandati qui perché voleva che fossimo felici.”
Julian si accese un’altra sigaretta, incurante che il pacco era terminato nel giro di poche ore.
“Non posso essere felice dopo quello che è successo.”
“Ma non puoi reagire ubriacandoti.” Replicò Rose.
“Non ti piacciono i giocattoli rotti? Beh, sapevi sin dall’inizio che i miei meccanismi non funzionano.”
Julian si era sempre sentito un giocattolo rotto e indesiderato. A parte Ariadne, nessuno della sua famiglia lo aveva mai amato e rispettato. Il fatto che gli piacessero sia gli uomini sia le donne lo aveva condannato a vita. Per lui non era un problema, da subito aveva accettato la sua natura, ma il mondo esterno ogni giorno gli ricordava che per lui non c’era spazio.
“Io ti amo così come sei, Julian. Proprio per questo vorrei che tu fossi felice senza sballarti con alcol e sigarette. Proprio perché ti amo vorrei che tu fossi felice.”
“Sei una ragazza adorabile, lo sai?”
Rose arrossì, ma questa non era una novità perché quando c’era di mezzo Julian il suo cuore non controllava le reazioni.
“Julian…”
“Sì?”
“Tu mi ameresti anche se non fossi incinta?”
Rose era al terzo mese di gravidanza e la pancia cominciava a notarsi. Era spaventata per mille ragioni, di non essere una buona madre, di non riuscire a crescere il bambino, di deludere le aspettative del fidanzato.
“Oh, Rosie, che domanda sciocca.”
“Scusami. Hai ragione, sono una sciocca.”
Julian andò a sedersi accanto a lei e le cinse le spalle con un braccio, dopodiché le baciò la fronte.
“Io ti amo, mia Rosie. E ti amerei anche se non aspettassi un figlio.”
“Allora prova ad essere felice per me.” Sussurrò Rose.
Julian la strinse a sé e sospirò, lei lo avrebbe odiato se avesse saputo cosa stava architettando.
“Ci proverò, tesoro. Ci proverò.”
 
Ariadne si chiuse la porta della camera da letto alle spalle col in terrore che le stava divorando il cuore. Dietro di lei Mick si stava sciogliendo il nodo della cravatta. Era la loro prima notte di nozze, motivo per cui adesso la ragazza sentiva la bile risalirle lungo la gola. Deglutì, eppure la paura non accennò a placarsi.
“Allora, moglie, ti sei divertita?”
“Come una condannata a morte.” Rispose lei.
Mick scoppiò a ridere. Persino la sua risata era un suono irritante per Ariadne.
“Vorrei che tu capissi che questo matrimonio porta vantaggi a entrambi.”
“Quali vantaggi porterebbe a me?”
“Una vita agiata, denaro, lusso, abiti, feste. Cosa desideri di più?”
Ariadne si appoggiò alla parete a braccia conserte, gli occhi color ambra che sembravano bronzo freddo.
“Desidero essere libera. E questo matrimonio non mi garantisce nessuna libertà.”
“La libertà è un concetto astratto. I soldi, il potere, il rispetto, queste sono cose reali.”
“La libertà è bella proprio perché non si può comprare.” Disse Ariadne.
Mick si tolse le scarpe e si sedette a bordo del letto. Fissò un punto indistinto della parete e sorrise.
“Tutto si può comprare in questa misera vita, moglie.”
“Mi stai dicendo che ho un modo per guadagnarmi la libertà?”
“Se farai la brava e saprai aspettare, avrai la tua libertà. E’ una promessa.”
“Hai ucciso l’uomo che amo, non credo alle tue promesse.” Ribatté Ariadne.
L’uomo le rivolse uno sguardo divertito, era così buffa quando metteva il broncio.
“Tommy era solo di intralcio ai miei affari. Questo matrimonio era necessario per svariate ragioni che tu non puoi comprendere.”
Ariadne si era spesso domandata come mai la sua famiglia fosse giunta ad accordarsi con Mick. Sospettava che ci fosse un segreto e che tutto fosse collegato a sua madre. Se svelare il mistero l’avesse salvata, era pronta a tutto pur di smascherare i piani della madre e di Mick.
“Anche io posso essere d’intralcio.”
Mick si alzò di scatto dal letto, una molla era scattata dentro di lui risvegliando la rabbia. Serrò una mano intorno al collo di Ariadne e la sbatté forte contro la parete.
“Io posso ucciderti in meno di un minuto. La tua vita dipende da me.”
Ariadne rise, malgrado il dolore, e fece spallucce.
“Se non mi uccido prima io con le mie stesse mani.”
“Non lo faresti.” Mormorò Mick, la voce furiosa.
“Tu non sai di cosa sono capace. Non sottovalutarmi, Mick.”
Mick, cieco di collera, strattonò Ariadne e la buttò a terra. Afferrò il posacenere sul comò e la colpì in pieno volto. Il sangue schizzò sul pregiato tappeto bianco in una strisciata scomposta.
“Non osare sfidarmi, puttana.”
Ariadne sputò il sangue che si era accumulato in bocca e si ripulì il mento. Il dolore alla mascella era atroce, ma trovò la forza di sorridere con i denti rossi.
“Sei tu che hai sfidato la donna sbagliata.”
Mick la colpì di nuovo con il posacenere. Questa volta le spaccò il sopracciglio. Stava per attaccarla ancora quando Ariadne strisciò fuori dalla stanza. Si aggrappò al grosso vaso dietro la porta e si rimise in piedi. Tremava per il dolore.
“Tu non vivrai ancora per molto.” La minacciò Mick.
Ariadne rise ancora, le costole le dolevano ad ogni singolo movimento. Continuò a ridere, non avrebbe mostrato la propria debolezza al suo carnefice.
“Vorrà dire che ci faremo compagnia all’inferno.”
 
Nadina ingurgitò l’ennesimo bicchiere di birra e battè i pugni sul tavolo in segno di vittoria. Lei e i suoi fratelli facevano sempre sfide di bevute e lei ogni volta ne usciva vittoriosa.
“Ho vinto! Di nuovo!”
“Tu bari!” la rimbeccò il fratello.
La ragazza rise, le guance arrossate dall’alcol e gli occhi lucidi.
“Siete voi che fate pena. Mi dispiace che siate dei perdenti. Io sono l’unica ad aver ereditato i geni buoni.”
L’uomo che lavorava con loro da qualche settimana se ne stava seduto in disparte a fumare. Osservava tutto e tutti con indifferenza apparente, ma in fondo studiava ogni singolo dettaglio. Il sole stava tramontando, il cielo si stava tingendo di una meravigliosa tonalità di rosso aranciato che faceva male alla vista. Quel colore – intenso e brillante – gli ricordava la donna che aveva perduto. Gli ricordava la vita che aveva perduto.
“Bello, vero? Questo cielo color fuoco.” Disse una voce.
Accanto a lui comparve Olga, la nonna di Nadina. Era una donna di settanta anni alta e snella, la pelle rugosa e gli occhi neri vispi. La sua voce sembrava distante, come se parlasse da dentro un antro stregato. All’interno della sua comunità era lei che comunicava con gli spiriti e conosceva certi incantesimi.
“Da dove vengo io il cielo non si vede così bene, è coperto dai fumi delle fabbriche.”
“Birmingham è una città moderna ormai.”
L’uomo smise di fumare, la mano ferma a mezz’aria e le sopracciglia corrugate.
“Come fai a sapere che vengo da Birmingham?”
“Me lo hanno riferito gli spiriti. Una bella donna, morta annegata, mi ha detto che sei nato in una notte di luna piena.”
Olga non si voltò ma sapeva che l’uomo la stava fissando con incredulità. Erano diverse notti che gli spiriti le facevano visita, e quella donna in particolare era stata piuttosto insistente.
“Mia madre è morta annegata nel canale di Birmingham.” Confessò lui.
“Lo so, mi ha raccontato la sua tragica storia. E mi ha anche raccontato la tua storia.”
“Dunque sai chi sono.”
La donna sorrise e annuì, eppure non pronunciò il suo nome. Il segreto non doveva ancora essere rivelato.
“Perché non torni nella tua città?”
“Non c’è niente a cui tornare. Birmingham è sotto il controllo di Enea Changretta.”
“Scommetto che sei rimasto a Londra per un motivo.”
L’uomo gettò via la sigaretta e mandò giù un sorso di whiskey. Quel sapore familiare era un conforto.
“Devo vendicarmi di chi mi ha ucciso.”
“Non tutte le vendette ne valgono la pena, a meno che non ci sia di mezzo qualcuno che amiamo.”
L’uomo distolse lo sguardo dal tramonto, quel rosso intenso gli stava bruciando gli occhi. Si portò la centesima sigaretta alle labbra ma senza accenderla, era una vecchia abitudine che gli ricordava la persona che era un tempo. Perché se prima era un temuto gangster, adesso era solo lo sguattero su una barca da pesca. Dalle stelle alle stalle, avrebbe commentato di certo zia Polly.
“Cosa mi resta se abbandono la vendetta? Niente.”
Olga allungò una mano inanellata e indicò il cielo sopra di loro, alcuni bagliori indicavano che di lì a poco sarebbero spuntate le stelle.
“Hai tutto il mondo davanti a te. Devi solo scegliere quale direzione prendere per abbracciare il tuo destino.”
“E se non ci fosse nessun destino ad aspettarmi?”
“Il destino ci aspetta sempre, anche se noi siamo in ritardo.” Rispose Olga.
 
A notte fonda Ariadne si ritrovò in cucina a bere whiskey. Non le piaceva l’alcol, ma in quel momento era l’unica soluzione contro il dolore. Temeva che Mick le avesse rotto qualche osso, considerata la posizione floscia del polso sinistro. Il sangue colato dal sopracciglio e dalla bocca si era seccato, si screpolava come colore su una tela.
“Misericordia!” esclamò la governante.
La signora Donald accese la luce e sgranò gli occhi alla vista del volto tumefatto della ragazza.
“Va tutto bene, signora Donald. Tornate a dormire.” disse Ariadne.
“Signora, il vostro viso… restate ferma, vi aiuto io.”
La governante riempì una ciotola di acqua e ghiaccio, vi intinse un panno e lo usò per pulire il sangue e lavare le ferite.
“Grazie.” Sussurrò la ragazza.
“Come è successo?”
Ariadne digrignò i denti quando l’acqua ghiacciata le lambì il taglio sulla fronte. Le ricordavano le ferite che suo padre procurava a sua madre quando la picchiava. Si era sempre chiesta come facesse sua madre ad amare quel mostro d’uomo.
“Sono caduta dalle scale.”
La governate sbatté le palpebre e si morse la lingua nel tentativo di ricacciare indietro commenti inappropriati.
“Anche la precedente moglie del signor King cadeva spesso dalle scale.”
Ariadne sapeva che Mick in passato era già stato sposato con una donna che pochi anni dopo era morta. Era la figlia di un notaio, ricca e colta, e per sposare lui aveva rinunciato alla sua famiglia.
“Quanto tempo fa è morta?”
La governante strizzò il panno sporco di sangue e lo buttò nella spazzatura. Recuperò il disinfettante e curò ogni taglio con sapienza.
“Non è andata proprio così.”
“In che senso?”
La signora Donald si guardò attorno, non voleva che orecchie indiscrete udissero quanto stava per confessare. Si avvicinò ad Ariadne tanto da parlarle all’orecchio.
“E’ ancora viva. Credo che il signor King l’abbia rinchiusa in qualche convento.”
“E’ viva?! Non è possibile…”
Ariadne ripensò a sua zia Doris, la madre biologica di Eric, a come nessuno sapesse della sua esistenza. Dunque se la madre era riuscita a cancellare Doris dalle loro vite, per Mick era stato un gioco da ragazzi far sparire la moglie.
“Voi sapete in quale convento si trova?”
“Il signor King ogni mese riceve lettere dal convento di Lanhearne in Cornovaglia.”
Ariadne abbracciò la signora Donald e le baciò la guancia. Le aveva appena offerto un asso nella manica perfetto.
“Grazie per le informazioni!”
La governante ricambiò l’abbraccio con imbarazzo, nessuna signora di solito stringeva la servitù. Ma Ariadne era diversa, glielo si leggeva nel fuoco degli occhi.
“Adesso, però, chiamiamo un dottore perché suppongo vi siate rotta il polso.”
“Sì, mi serve un dottore.”
 
Lizzie trasalì all’ennesimo colpo di pistola che squarciò la notte. Ormai era consuetudine, una a cui lei non riusciva ad abituarsi.
Da quando Tommy era morto ed Enea aveva preso il controllo sulla città, ogni notte era segnata da risse, sparatorie, rapine e aggressioni varie. Birmingham era fuori controllo.
I Peaky Blinders non esistevano più, la banda era stata sciolta da Enea e i membri si erano nascosti negli angoli più remoti della città. Persino gli Shelby si erano rintanati nelle loro case di campagna.
Lizzie e i bambini, invece, erano rimasti nella loro casa insieme a Jonas Solomons. L’uomo alloggiava nel settore riservato alla servitù, mangiava con loro e spesso aiutava le domestiche con le faccende. Di giorno piantonava l’esterno della casa mentre di notte stava fisso alla finestra, la mano sempre poggiata sul fodero della pistola.
Anche in quel momento Jonas era di guardia alla finestra, lo sguardo vigile e i sensi in allerta.
“Jonas, vuoi una tazza di tè o di caffè?”
L’uomo non distolse gli occhi dal giardino, si limitò ad abbassare il mento in assenso.
“Una tazza di tè. Grazie, signora Shelby.”
Lizzie si allontanò e tornò una decina di minuti dopo con una tazza fumante e un piattino di biscotti al burro.
“Ecco, siediti e mangia.” Disse Lizzie.
“Berrò in piedi. Non posso lasciare la mia postazione.”
Jonas tese le mani per prendere la tazza, vi intinse un biscotto e sorseggiò la bevanda.
“Hai sempre fatto la guardia del corpo?” gli domandò lei.
“No. Quando ero giovane e vivevo ancora a Gerusalemme, lavoravo come giardiniere. Mi piacciono molto le piante e i fiori.”
Lizzie prese un biscotto e se lo rigirò fra le mani, la sua mente vagava fra i ricordi del passato che ancora facevano male.
“Come sei capitato in Inghilterra?”
Jonas bevve altro tè, ogni volta che parlava con la signora Shelby gli si seccava la gola.
“Quando la guardia del corpo Alfie è morto, il ruolo è passato a me. Non avevo modo di oppormi, dunque sono salito su un treno da Gerusalemme a Londra. Sono anni che non torno nella mia terra natale.”
“Vorresti tornare a Gerusalemme?”
“Sì, con tutto il mio cuore. Spero che almeno seppelliranno lì il mio corpo alla mia morte.”
“Che discorso triste.” Mormorò Lizzie.
Jonas arrossì. Posò la tazza e si scrollò le briciole dalla giacca di alto taglio sartoriale.
“Perdonatemi, signora Shelby. Sono stato uno sciocco a parlare di morte.”
“Almeno la morte è la nostra unica certezza. E credo che prestò arriverà per tutti noi.”
“Non temete per l’incolumità vostra e dei vostri figli. Finché ci sarò io non vi accadrà nulla.”
Lizzie si versò un bicchiere di whiskey, tanto i bambini erano a letto e il tè non sortiva alcun effetto.
“Perché sei qui? Tu non lavori per i Peaky Blinders.”
“Sono qui per ordine della signorina Evans.”
 
Un mese prima, Birmingham
Ariadne piegò il foglio, lo inserì in una lettera e la richiuse con estrema cura. Si alzò dallo scrittoio e porse la lettera a Jonas, che l’afferrò con incertezza.
“Volete che consegni un messaggio a qualcuno?”
“Questa lettera è per te. Contiene le istruzioni che dovrai seguire.”
Jonas si infilò la busta nella tasca interna della giacca, la mano che tremava appena.
“Istruzioni? Signorina, vi prego di essere più esplicativa.”
Ariadne si accasciò sullo scrittoio con un sospiro, era esausta e voleva soltanto chiudere gli occhi. Ma non poteva riposare, almeno non fino a quando non avesse sistemato tutti i conti in sospeso.
“Presto le cose si metteranno male per tutti. Polly ha avuto una visione catastrofica. Ha sognato cieli insanguinati e fiamme, pessimo presagio.”
“Da quando ci affidiamo ad una strega?” chiese Jonas, perplesso.
“Polly non è una strega. Ed è vero che le sue visioni si realizzano sempre.”
“Suvvia, signorina, voi siete molto più intelligente di così. Credere a queste sciocchezze non è da voi.”
Ariadne non rise, anzi non fece nessun movimento e nessuna espressione. Rimase con lo sguardo perso nel vuoto.
“Se succede qualcosa a Tommy Shelby, tu dovrai proteggere sua moglie e i suoi figli.”
“E chi proteggerà voi, signorina?”
Jonas avvertì una strana sensazione al petto, preoccupazione mista a paura.
“Io per allora sarò finita all’inferno e abiterò col mio diavolo.”
Ariadne gettò un’occhiata fuori dalla finestra: la notte non era mai stata tanto buia.
 
 
Salve a tutti! 💙
Eccomi tornata con la terza – e ahimè, ultima – parte di questa storia.
Perdonate il ritardo ma con l’università è stato un anno impegnativo.
Spero che questa parte vi piacerà, ho fatto del mio meglio come sempre.
Questo è solo l’inizio, per Tommy e Ariadne si prospettano grossi guai!
Fatemi sapere cosa ne pensate.
Alla prossima, un bacio.
 
Ps. Tutti i luoghi citati sono reali (il canale, la cittadina irlandese e il convento).

INFERNO 3 || Tommy Shelby Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora