Dolore: la mia testa stava esplodendo. Fu così che aprii gli occhi con lentezza mettendomi seduto.
Rimasi attonito: il cielo era gonfio di nubi e cenere; in giro non si vedeva altro che dura e nuda roccia.
Dolorante mi alzai in piedi, non sapevo cosa fare. I ricordi riaffioravano a fatica e con molti vuoti.
In lontananza si stendevano picchi e vallate spoglie illuminate da strani archi di energia viola che alle volte venivano dal cielo altre dalla terra. Questi emettevano forti boati che riempivano l'aria, echeggiando.
Fu quando fui accecato da uno di questi che cadde poco lontano da me che mi ritorno alla mente Puk. Ovunque guardassi non ne vedevo traccia. Per un momento il panico mi scosse, ma subito mi imposi di calmarmi.
Non si poteva dire che fosse buio l'ambiente ma non si poteva dire nemmeno il contrario. Una luce violacea filtrava dalle nuvole rigonfie spargendo una malsana illuminazione tutto intorno, non abbastanza da poter scorgere più in la di alcune centinaia di metri. Solo quegli archi mi mostravano sporadicamente alcune sagome che si stagliavano all'orizzonte come picchi silenti.
Nella mia mente c'era un vuoto: cosa era successo da quando ero arrivato in fondo al mare fino a quel momento? Per quanto mi sforzassi non c'era nulla che mi tornava in mente.
Abbandonai il pensiero e mi dedicai ai problemi in quel momento più pressanti: ero fuori dalla mia mente? Se si cosa fare?
La risposta mi sopraggiunse quasi istintivamente: in tutto ciò che mi circondava c'era un'ostilità che non avevo mai sentito nella mia mente. Avevo paura di ferirmi e di morire, avevo fame e sete, avevo freddo e la roccia mi feriva i piedi scalzi.
Dovevo avanzare, non c'era altra via. E così feci: scesi dal picco in cui ero arroccato; mi ferii molto e la tensione non faceva che aumentare ogni passo malfermo che compivo riuscendo a scendere un poco. Passarono molte ore e riuscii ad arrivare in una valle piana dove crollai gemendo di dolore: non poteva essere un sogno, i pantaloni strappati e il sangue ormai coagulato delle ferite me lo rendevano chiaro. La valle era piccola e subito scoscesa precipitava per molti metri, strisciai il più lontano possibile dai bordi.
Un fulmine si innalzo dal terreno pochi centimetri davanti a me: in un istante varie ondate di formicolii mi attraversarono il corpo, facendosi sempre più intense scuotendomi dal dolore. Istintivamente mi alzai indietreggiando, ma i miei occhi vedevano solo bianco e inciampai su un sasso.
Fu così che iniziai a rovinare lungo quella ripida discesa da cui prima mi ero allontanato: la mia schiena, le mie gambe, le mie mani che istintivamente coprivano il mio volto, tutto venne lacerato e contuso. Riuscii a lasciarmi andare ad un urlo di dolore solo quando urtai con forza una parete; per mia sfortuna non persi i sensi.
Rimasi immobile per non intensificare quelle fitte che paralizzavano i miei muscoli ancora contratti nel vano tentativo di proteggere le mie ossa. Lacrime di dolore iniziarono a scorrere piano.
Così stetti lì, immobile, per un tempo che non saprei quantificare. Tra la disperazione di non poter vedere nulla e il dolore non c'era nulla a fermare la mia disperazione.
La mia unica compagnia era l'ululante vento che tanto mi infreddoliva. Passò molto tempo prima che il dolore scemasse abbastanza per permettermi di pensare ad altro. Così iniziai a respirare profondamente cercando di frenare le mie lacrime; mano a mano i singhiozzi si fecero sempre più controllabili fino a scomparire del tutto. Non era corretto dire che la mia nera disperazione era passata, ma ora avevo recuperato la calma.
Mi misi in una posizione più comodo cercando di controllare quella paura che inquinava la mia mente: continuavo a ripetermi che avrei trovato un modo di uscirne. Lo ripetei fino così tanto a me stesso che finii per convincermi abbastanza da riuscire a tornare a pensare lucidamente.
Analizzai la situazione: ero ceco, probabilmente la mia caviglia sinistra era rotta e iniziavo ad avere fame; per non parlare di tutto il mio corpo interamente martoriato.
I boati dei fulmini mi giungevano molto echeggianti cosa che mi fece sospettare di essere all'interno di qualche riparo naturale.
Lo confermai procedendo lungo la parete a tentoni: era una piccola grotta sotto terra probabilmente. Seguendo la corrente d'aria incappai in una parete: la corrente d'aria proveniva da dove la mia mano non riusciva ad arrivare. Inorridii realizzandone le implicazioni: la parete era liscia e l'unica uscita era sicuramente più alta di due metri. Mi abbandonai sulla parete e sorrisi amaramente: il luogo che mi riparava comodamente dai fulmini sarebbe stata la mia prigione fino alla morte. Mio padre aveva ragione quando diceva che la nostra famiglia aveva la sfortuna congenita.
Solo, ceco, zoppo in un ambiente ostile sconosciuto. Mi rannicchiai, imprecando con voce rotta da lacrime incerte che a fatica parzialmente scacciavo. Avevo perso di nuovo il controllo di me stesso.
Finite le lacrime mi distesi sulla fredda roccia e crollai dalla stanchezza. Chissà quanto dormii? Non potei dirlo al mio risveglio, ma la mia schiena dolorante mi diceva troppo.
Mi misi seduto: le lacrime erano finite, ora mi rimaneva solo la disperazione. Fu mia oppressiva compagna per moltissime ore mentre saggiavo ogni mia minima possibilità di sopravvivenza.
Ogni tanto provavo ad alzarmi e a muovere la caviglia, ma subito rinunciavo gemendo di dolore.
Le ore passavano e non riuscivo a decidermi sul da fare. Mi dovevo sforzare e muovermi oppure aspettare che la mia caviglia si mettesse a posto? Per adesso il problema dell'acqua e del cibo non era pressante, ma più avrei aspettato più mi sarei indebolito. Tentennai e la stanchezza reclamò la mia mente: questa volta dormii molto peggio. L'idea che qualcuno mi attaccasse a mia insaputa mi tormentava e per non parlare di quei boati; inoltre la mia cecità non aiutava a scogliere la profonda tensione che mi paralizzava. E fu in quello stato di semi-coscienza, in cui la mente si agitava ma il mio corpo giaceva, che mi accorsi di una cosa tanto particolare quanto inutile: i fulmini cadevano regolarmente ogni tre secondi.
La fame crebbe, con lei la seta. L'unico modo che avevo per capire il passare del tempo era contare i fulmini, cosa che feci per non sprofondare nei bui pensieri che minacciavano di trascinarmi a fondo.
Passò almeno un'altra giornata da quando quei boati assunsero la funzione di grossolano segnatempo.
Così, più colto dall'urgenza di allievare la mia sete rispetto all'effettivo miglioramento della mia caviglia, iniziai a provare ad arrampicarmi nel vano tentativo di uscire. Per quanti boati contai la parete sembrava un ostacolo insormontabile: mi ruppi numerose unghie, caddi continuamente, riaprii vecchie ferite. Ad un certo punto rinunciai, aspettando la morte.
La tensione che fino a quel momento aveva distrutto i miei nervi iniziava a dissiparsi: passò un'altra giornata e i miei nervi si distesero completamente.
La sete mi ardeva la gola, la fame mi divorava lo stomaco: trovai l'unico sollievo nel pensiero che ancora riuscivo a pensare.
Era buffo realizzare quanto l'istinto di conservazione fosse forte: ogni mio sforzo mentale era dirottato al cibo e l'acqua. Ma allo stesso tempo per quanto l'istinto mi comandasse e forse ormai ero più simile ad una bestia che un uomo, pensavo ancora.
Stavo morendo: me ne rendevo conto. E fu proprio per questo che potei provare un purissimo sollievo e divertimento nell'esercitare il mio pensiero cercando di slegarmi dai miei istinti.
E fu così che qualcosa iniziò a cambiare nell'ambiente che mi circondava: più riflettevo è più mi rendevo conto che la mia esistenza era strana.
Mi ero sempre chiesto quanto l'Io in cui mi rappresentavo coincidesse con l'organo chiamato cervello: la scienza mi dava una risposta molto chiara a riguardo.
Ma io sentivo che la risposta era diversa e stava tutta nel mio pensiero: ma allo stesso tempo compresi che non potevo afferrarla; per quanto io indagassi sulle origini del mio pensiero sempre qualcosa a me sconosciuto dovevo usare: il pensiero. Era un serpente che si mordeva la coda.
Il mio nero campo visivo si coloro di sfumature violacee: prima solo macchie difficili da notare, poi forme parziali.
Il tempo passò. Non riuscivo a muovermi: ogni mia singola energia si era prosciugata; non mi rimaneva molto tempo, ma la mia mente guizzava incurante dello stato del corpo.
Tutto era violaceo e dovette passere un po' prima che capissi che le forme avevano assunto profondità: fu come una rivelazione quando riuscii a comprendere la visione del tutto.
Una grotta con un basso soffitto e uno spazio di due metri tra una parete e l'altra. Debolmente alzai la testa e vidi l'apertura che tanto avevo teorizzato: era poco più alta di dove ero riuscito ad arrivare.
Meravigliato e frustato alzai debolmente le mani verso l'uscita: per qualche motivo riuscivo a vedere eppure non avevo la forza di alzarmi.
Urlai la mia frustrazione e mi abbandonai nuovamente.
Non passò molto che un rumore si differenziò da quei rombi, erano forse passi? Fui certo della cosa quando un bassò stridio mi fece alzare lo sguardo. Circa grande come un lupo, ma dalla corporatura felina; inoltre la faccia aveva una forma strana, ma mi era difficile dire data la mia difficoltà di comprendere i dettagli in quel mare di sfumature viola.
Era ostile e aveva fame: queste due sensazioni mi arrivarono dritte nella mia mente, raggiungendo l'amigdala. Saltò giù e lo stridio aumentò di intensità: era davanti a me. Quello stridio arrivava direttamente nella mia mente: quella creatura non era normale.
Quando lo realizzai qualcosa di più profondo del normale istinto di sopravvivenza scattò: un brivido rimbalzò lungo ogni mio singolo nervo più volte, scuotendomi. Così fino all'ultimo briciolo di energia rimasta nel mio corpo venne portata al mio cervello.
Fu in quel momento che balzò stridendo con una forza che rischiava di farmi impazzire, ma non riuscii a raggiungermi.
L'energia accumulata nella mia testa esplose e una massa informe del viola più puro che io avessi mai visto lo investì, fracassandolo con forza contro la parete.
La creatura provò a rialzarsi ma come pece quella massa lo divorava mentre strideva sempre più forte. Mi tappai le orecchie e chiusi gli occhi, cercando di sfuggire ai quei terribili lamenti.
Piano piano se fecero sempre più bassi, fino a scomparire totalmente; così aprii le palpebre e quella massa viola fluii dentro di me portandosi anche la creatura.
Non ebbi tempo provare orrore: quello che prima era la creatura fluii dentro di me: rinvigorii, come se avessi appena mangiato un abbondante pasto e la sete si attenuò incredibilmente. Le forze mi erano tornate, stupito e sconvolto mi alzai in piedi.
Gli stridi di quell'essere ancora rimbombavano nella mia testa: l'avevo ucciso e consumato. Tremante mi appoggiai con la mano su una parete per riprendermi.
Aspettai qualche minuto: il mio corpo e la mia mente si riprese interamente, ma la fame e la sete tornarono a farsi sentire. Feci un respiro profondo.
Ero nel mondo del sogno e avevo ucciso quella creatura con la forza della mia mente: questo mi era chiaro. Non me ne stupii particolarmente: nel giro di una manciata di giorni avevo perso la vista e poi riguadagnata.
Provai a camminare, ma lo trovai molto più stancante del previsto: sia dal punto di vista fisico che mentale. Mi avvicinai all'uscita, pensando al da farsi. Se ero riuscito colpire fisicamente quella creatura con la mente potevo forza spostarmi io stesso?
Quando mi concentrai capii che qualcosa nella mia mente era cambiato: potevo sentire dell'energia che fluiva al suo interno. Stuzzicai questi flussi pensando ad una piattaforma per poter salire: un disco di quel viola tanto denso, sospeso a livello del mio ombelico, apparve; provai ad inerpicai su di esso.
Quando appoggiavo parte del mio peso sul disco il mio corpo era soggetto ad uno sforzo molto maggiore del normale gesto dell'arrampicata. Strinsi i denti e riuscii a salire sul disco: così ne creai un altro e miracolosamente riuscii a salirci sopra.
Ormai non ci vedevo più dalla fatica, letteralmente: fu una delle mie più grandi imprese quella di riuscire a issarmi sull'apertura che stava poco più in alto.
Ansimante e con il mal di testa mi distesi in quel ripido cunicolo tendendo i flettendo per non cadere. Quando passò abbastanza tempo perché riuscissi a pensare di nuovo capii del perché di quella fatica.
Avevo creato degli oggetti solidi, ma più peso avevano dovuto sopportare più la mia fatica fisica e mentale era cresciuta. Mi alzai e a tentoni percorsi il lungo cunicolo; mi fermai moltissime volte: era molto ripido e l'unica cosa che mi impediva di ruzzolare nella grotta erano la pura forza muscolare dei miei arti. Maledii quei giorni che per pigrizia non avevo fatto attività fisica.
Metro dopo metro, imprecazione dietro imprecazione, rivalutai l'utilità di tutti quegli sport che non avevo mai praticato.
Giusi così alla fine del tunnel, rivedendo quel cielo funesto.
Mentre, ansimante, riprendevo fiato notai alcune cose: l'intensità della colorazione violacea del cielo era minore rispetto al suolo dove camminavo e quei fulmini avevano lo stesso identico colore dell'energia proveniente dalla mia mente.
Ripresi a scendere giù dalla montagna, lasciando gli interrogativi per quando il terreno non fosse stato così difficile.
Così i giorni passarono: dico giorni perché anche contando con quel pressapochismo provocato dalla mia difficoltà di stare attento dove mettevo i piedi e prestare attenzione hai rombi contemporaneamente, nei contai molti.
Per mia fortuna camminando fino allo sfinimento riuscivo sempre a trovare un rifugio prima di crollare dalla stanchezza.
Incontrai altre di quelle creature stridenti, stavano nascoste e mi osservavano ignare che potevo vederle data la loro colorazione viola molto accesa.
Fu forse per questo che iniziai a diventare paranoico e il mio sonno era talmente frammentato che non si poteva definire tale. Per non parlare della continua paura che un fulmine potesse incenerirmi, cosa che non accadde nei primi giorni; poi compresi come evitarli: prima che cadessero dal cielo oppure sorgessero dalla terra l'aria che sarebbe stata percorsa dagli stessi si scuriva rispetto all'ambiente circostante.
All'inizio evitai molti fulmini per un pelo, poi divenni sempre più bravo a riconoscere quei cambiamenti di colore.
Inoltre notai una cosa veramente particolare: io assorbivo energia dall'ambiente. Probabilmente era per quello che riuscivo a marciare con un tale vigore; ma quella sensazione perenne di fame e sete rimaneva.
Così mi lasciai alle spalle l'ultimo di quei picchi infernali e il terreno si fece molto più regolare, anche se sempre impervio.
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L'isola della mente
Science FictionUn mondo devastato dalla guerra, dove nuovi particolari essere umani iniziano a nascere. I governi si sono adattati a questo mondo, ognuno a suo modo. Ma una cosa è chiara a tutti: gli psichici sono una risorsa preziosa quanto rara. Vanno studiati...