Sonetto LCVI

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C'è una stanza, in una casa di Roma:
le librerie in legno scuro contengono enormi sapienze sui loro scaffali,
odore di carta e caffè invade le narici di chiunque superi la soglia.
Seduto a una scrivania, un uomo.
La postura scomposta e curva, gli occhi concentrati.
Sta passandosi tra le mani infiniti libri che tira fuori da uno scatolone,
uno a uno
i volumi si lasciano accarezzare da quelle mani,
uno a uno
da quelle mani con dita affaticate dall'uso smodato di penne e matite,
uno a uno
da quelle mani con la pelle rovinata dalla polvere del gesso.
Si ferma l'uomo, tra le mani un dono prezioso:
pagine ingiallite e usurate già nel giorno in cui quel libro gli venne regalato,
una sola imperfezione: quel timido angolo di pagina ripiegato su se stesso,
come a ripararne il contenuto.

L'uomo trema,
ché il poeta ha davvero scritto,
e lui ha davvero amato.


Manuel è stanco, il caffè nelle due piccole tazze bianche è finito da un pezzo, ed è sicuro che in una di quelle il cucchiaino sia ormai incollato al fondo, attaccato a quella poltiglia appiccicosa formata dallo zucchero.

Lui neanche lo beve il caffè zuccherato, lo ha messo per sbaglio. Per abitudine.
Lui neanche li voleva due caffè, li ha fatti per sbaglio. Per abitudine.

Ai suoi piedi giace uno scatolone, una scritta leggera e disordinata riporta "libri cameretta Manu", e di libri ce ne sono infiniti lì dentro, sembra non finiscano più le storie, o forse è il fatto che ogni volume porti con sé la storia scritta e un centinaio di ricordi legati alla carta e a due giovani ragazzi e la primavera di un amore.

Gli scappa un sorriso storto ogni volta che passa gli occhi su quel cameretta, ché solo quell'uomo alto quasi due metri e cresciuto nelle mischie avrebbe scritto una parola del genere nell'ordinare gli oggetti durante il loro primo trasloco.
Lo stesso sorriso storto che fece quando lo lesse la prima volta, affaticato e sudato nel fare avanti e indietro quattro rampe di scale trasportando scatoloni su scatoloni.

Era rimasto poi chiuso a prendere la polvere nel piccolo box, veramente troppo piccolo anche per poter fare da garage, che avevano compreso nell'acquisto dell'appartamento, nel piano sotterraneo di quella palazzina un po' malandata di cui si erano innamorati e che avevano scelto per iniziare la loro vita da adulti insieme.
Insieme, che bella parola.

Non vedevano la luce da tredici anni ormai, e non l'avrebbero forse più vista se non fosse stato per quell' undicenne che nella foga della crescita aveva imposto un cambiamento della propria camera da letto, ché non sono più un bambino, e voglio togliere quei giocattoli, e anche quei libri e alcuni di questi peluche.

Così, arreso e messo con le spalle al muro dal passare inesorabile del tempo, quel signor cameretta si era trovato a dover trasportare nel piccolo box altri scatoloni, la cui scritta, sempre leggera e disordinata, identificativa riportava "ricordi cameretta Jacopo", stavolta da solo.
Solo, che brutta parola.

Ma quella stanza sotteranea non era mai stata capace di racchiudere insieme i ricordi, i momenti, i simboli e gli affetti di quel nucleo familiare che nel tempo si era creato, con fatica e amore.
E la colpa non era certo da imputare a quel ridicolo spazio racchiuso tra quattro mura, semplicemente, Manuel era certo, non sarebbe bastato tutto lo spazio dell'universo per poter impilare e mantenere in ordine ogni piccolo granello di quell'amore smisurato.

E così un pomeriggio Manuel venne interrotto dalla correzione di fantasiosi e deliranti compiti di filosofia dal suono del cellulare.
Una foto: due scatoloni, due "camerette" che non avevano più avuto motivo di essere separate. E un messaggio: "Nell'attesa di trovare un modo per mandare indietro il tempo e far ritornare quel pre adolescente un bambino amorevole e tenero, ho dovuto liberare la camera di tuo figlio da oggetti che gli ricordassero che è ancora piccolo. Per evitare che il box esploda devo togliere qualcosa, domani ti porto lo scatolone alla villa, guarda se c'è qualcosa che vuoi tenere."

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