2. Capitolo due.

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Mi posizionai davanti al mio specchio autoportante, facendo due giravolte per esaminarmi meglio nei punti che frontalmente non avrei mai potuto vedere.

Mi guardavo e sembrava che il mio aspetto di tutti i giorni, si fosse improvvisamente trasfigurato in quello di una ninfa dei quadri di fine ottocento.

A dirla tutta - per dimostrare una spruzzatina di immodestia - mi trovavo davvero incantevole.

Avevo sempre amato i miei ricci scarlatti che vorticavano morbidamente fin giù alla schiena, stravedevo per i miei occhi argentei che sembravano due lune piene appena sorte nel cielo notturno e mi trovavo a mio agio con le mie forme da modella racchiuse nelle misure di una Venere tascabile.

Era stato strano infatti che un vestito a campana mi donasse perché sapevo bene che un fisico a clessidra come il mio si valorizzava meglio con quelli a tubino.
Invece, impensabilmente la stoffa pregiata dell'abito di chiffon fasciava morbidamente la forma dei miei fianchi e seno, facendomi sembrare più grande di qualche anno.

Come il contrasto dello scarlatto dei miei capelli con il verde smeraldo del vestito che si accoppiavano sobriamente quasi fossero nero con bianco.

Dandomi un'aggiustatina al busto del vestito, realizzai di non aver pensato di comprarlo di questo colore: smeraldo.
Mi ero prefissata gradazioni come il grigio, l'argento, il lilla e perfino il porpora, ma non lo smeraldo.

Potevo averlo fatto inconsciamente, però ogni volta che lo guardavo, figuravo gli occhi di Alessandrite che un tempo remoto aveva avuto Mirko.

Light sbuco tutto d'un tratto al mio fianco, miagolando come un signor gatto dell'alta aristocrazia felina.

A svegliarmi un attimo prima che mia madre spalancasse la porta con le sopracciglia aggrottate a cicatrice di ali, era stato lui.

Mi aveva evitato una seconda lunghissima ramanzina sulle responsabilità che mi sarei dovuta assumere in quanto ormai donna compiuta, e così facendo, si era meritato una sfrenata dose di coccole per un intero anno.

Mi piegai sulle ginocchia per accarezzargli la parte alta del collo sotto il musino, ricevendo delle fusa come ringraziamento.

Stesi a giocare con lui sul letto finché non furono passati dieci minuti, ma ne persi altri dieci per cercare di mandare via la macchia di - profumo? Acqua? Un composto chimico sconosciuto? - apparso magicamente al centro esatto della gonna.

Per una strega del mio calibro sarebbe stato un giochetto da ragazzi farla sparire con uno schiocco di dita, ma gli umani ci avevano imposto delle leggi da eseguire e mi toccava adeguarmi ai loro metodi casalinghi.

Senza contare che avevo già trasgredito la legge per lanciare l'incantesimo delle menti legate su Light.
Se avessi infranto la medesima legge una seconda volta in così poche ore, sarei stata sospesa dalla Teca come minimo per un anno.

Per togliere la macchia, le provai tutte.
Usai il fono sparandogli aria calda, ottenendo il risultato di averla in evidenza come una sbavatura di rimmel nero su una guancia inumidita dalle lacrime.
Allora ricorsi all'acqua, ma neanche quella fece miracoli.
Alla fine mi scocciai e lo lasciai lì in bella vista fregandomene di quello che gli invitati avrebbero pensato, sia della sgridata di mia madre quando alla fine della serata avremmo fatto il resoconto delle conversazioni avute durante il corso del ricevimento.

Perciò, aprii la porta tutta impettita, indossai l'anello della famiglia Mancini nel dito medio, lasciando nell'indice quello di onice nero incastonato da una splendida ametista, e con il disappunto di Light - anche il mio - mi indirizzai al piano di sotto per attendere il sospirato arrivo del mio invidiabile accompagnatore.

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