CH. VIII

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«Ti piace Ikaros?»

Victoir dardeggiò con lo sguardo attraverso il pulviscolo, puntando la sagoma spigolosa di Arthur Coleman all'estremo opposto dello studio, visibile a malapena da quella posizione.

Le spalle del giudice erano profondamente incurvate sotto un ammasso di abiti completo di mantello e persino di una coperta. Accartocciato su quello che avrebbe dovuto essere uno scrittoio ma sembrava più il regno del caos, parzialmente occultato dalle alte torri di documenti che non sembravano sfoltite neanche di un foglio dalla notte precedente, l'uomo lavorava. Lavorava come un mulo, a giudicare dalle lunghe ore di silenzio e forsennato scribacchiare che avevano preceduto la domanda che ancora aleggiava in attesa di risposta.

Si fissarono come dei leoni affrontati: da un lato il ragazzo, rigido al pari di un manico di scopa, dall'altro il giudice, piegato come sul punto di spezzarsi. Arthur Coleman doveva essere tanto preda del freddo quanto di atroci mal di schiena. Victoir, perseguitato dalle raccomandazioni del padre riguardo la postura sin dall'infanzia, sentiva fitte di dolore lungo la schiena solo a guardarlo.

«Ikaros?» ripeté lentamente, impegnandosi a far trasparire la propria confusione attraverso la voce atona. L'illuminazione lo colpì nell'esatto momento in cui aprì bocca, quindi dardeggiò di nuovo in direzione dell'oggetto che era stato finora il centro della sua attenzione. «Gli ha dato un nome?»

«Naturalmente. In che altro modo vorresti discostarlo dalla mimesi, se non donandogli un'identità propria attraverso un nome?»

Una nota stonata vibrò nelle parole del giudice. Victoir decise che si trattava di irritazione, una delle emozioni che più di frequente suscitava negli altri quando apriva bocca. Forse aveva osato troppo, oppure la sua era stata una domanda molto stupida. Era però certo che non si sarebbe mai aspettato una risposta che scomodasse persino Platone.

«Ikaros.» sussurrò, il tono ora più fermo e basso.

Effettivamente, nonostante la tragicità, era un riferimento azzeccato.

Ikaros se ne stava pigramente appollaiato sulla mensola sopra il camino, un soprammobile tra tanti, emettendo di tanto in tanto una manciata di note con una voce troppo realistica per un passero fatto di ferro e porcellana. Una creatura suggestiva e al contempo sinistra, con lamine spigolose a comporre le ali e occhi di zaffiri, nata dalle mani di Arthur Coleman l'inventore, non il giudice.

L'indice e il pollice destri, con cui aveva sfiorato con lentezza quasi reverenziale il piumaggio finto di Ikaros, scivolarono via fino a penzolare lungo un fianco. Raddrizzata la schiena, Victoir si lasciò alle spalle il tepore del camino e il profumo del legno bruciato per avvicinarsi al giudice infreddolito nella saletta adiacente. Arthur Coleman avrebbe potuto semplicemente spostare la scrivania in modo da lavorare nella zona più calda dello studio, ma sembrava che la vista della valle abbracciata dai monti gli stesse più a cuore.

Durante quella prima quieta notte di sorveglianza, lo stesso Victoir si era ritrovato un paio di volte ad allungare lo sguardo fin dove permesso dal candore della luna e persino un po' più in là, dove il buio si contorceva alimentando la paranoia che l'ombra di turno non appartenesse a un animale notturno, ma a un assassino in cerca di una vendetta feroce. Nonostante il formicolio che lo assaliva ad ogni rumore inconsueto o brutto scherzo dei suoi occhi, Victoir trovava quel panorama tanto incantevole da non essere del tutto in disaccordo sul preferirlo al torpore delle fiamme.

«Lo trovi ridicolo? Infantile?»

La domanda improvvisa lo spiazzò.

In un attimo i morbidi pendii dei Pennini che occupavano il suo intero campo visivo furono sostituiti dalla sagoma un po' patetica del giudice, i cui occhi verdi lo inchiodavano come avrebbero fatto con un imputato alla sbarra. Victoir, tuttavia, si sentì chiamato in causa più per avere un confronto che per essere messo alla berlina.

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