Unus

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Era tardo pomeriggio, aspettavo impaziente in auto. Due gocce d'acqua in particolare si distinguevano fra le altre che cadevano sul parabrezza; facevano a gara, io tifavo per quella a sinistra. Secondo i miei calcoli (guardando il mio orologio, in realtà), Dario avrebbe dovuto presentarsi da almeno cinque minuti. Perché era in ritardo? Lo avevano scoperto, me lo sentivo. Anni e anni di carriera buttati al vento. D'altronde, lui non aveva mai avuto molta pratica nello svolgere questo mestiere. Soltanto una mente astuta e scaltra come la mia avrebbe potuto compiere un tale lavoro. Già vedevo... «Oh ciao, Dario». Stavo dicendo che già vedevo il mio volto su tutte le televisioni del mondo, e come sottotitolo "Elia il..."

«Il deficiente! Sai fare soltanto il deficiente!». Da quanto tempo Dario era qui?. «È da due ore che ti sto dicendo di premere questo benedetto acceleratore! Due ore!»

Sbattei più volte le palpebre; ero talmente perso nei miei pensieri, meditando su quando sarei diventato una Star di fama mondiale, che non avevo fatto caso al suono dell'allarme della banca che Dario aveva appena svaligiato.

«Sbrigati!»

Oh giusto. Accesi la macchina, permetti prima la frizione, la lasciai poi lentamente, dopo cambiai la marcia, e l'acceleratore divenne l'unica nostra speranza di vita.

Ora le sirene delle auto della polizia avevano preso il posto di quell'allarme tramortente.

I tergicristalli non funzionavano e la pioggia sempre più forte era ormai un ostacolo. Ma non potevo fermarmi, non volevo rischiare. Decisi di andare a sentimento, dove la pioggia mi portava. «Accelera di più!». Stavo facendo del mio meglio, Dario. Se non saremmo passati a miglior vita in prigione, la canzone alla radio sarebbe sicuramente stata la colonna sonora della nostra morte. Voleva morire con Orietta Berti in sottofondo? Molto insolito come desiderio.

Riuscii a intravedere una piccola stradina, dunque la presi in pieno, senza mai dividere la mia scarpa dall'acceleratore, che erano oramai un tutt'uno. Dario era rigido, gli occhi spalancati, con la schiena incollata al sedile e le unghie che graffiavano quella stessa stoffa. Orietta Berti aveva smesso di cantare. Si sentiva soltanto il motore stanco e sempre più debole, ma doveva resistere, da lì a breve avremmo seminato i poliziotti. A proposito, perché le sirene avevano cessato di infastidirmi?

Premevo ancora l'acceleratore, ma l'auto faticava a camminare. «È finita la benzina» mi fece notare Dario. «Accosta vicino quegli alberi, non penso che riusciranno a trovarci qui». Feci come aveva detto, poi scendemmo dall'auto. «Hai idea di dove siamo?» chiese. «Sono trent'anni che vivo a Roma, eppure non riesco proprio ad orientarmi».

«È la stanchezza, l'adrenalina del momento».

Ci poggiammo con la schiena contro il tronco di un albero, aspettando che il temporale si calmasse. Non molto distante da noi c'era un piccolo pozzo, che il biondo indicò con speranza. «Sarà buona quell'acqua o è pereperepe?» Non riuscivo a capire il nesso fra l'acqua e il suono di una tromba. Aggrottai la fronte, e lui ripeté la frase. «Quell'acqua» tentò di spiegare «è potabile oppure è pereperepe?»

«Ma cosa c'entra?»

«Perché altrimenti non possiamo berla».

«Io non capisco perché imiti il suono della tromba».

«L'acqua è potabile o è per le pecore

Adesso sì che avevo capito. Dario aveva sempre avuto il vizio di mangiarsi un paio di lettere. Quella frase ebbe finalmente un significato. Risposi che era meglio non bere da lì. Mi guardai attorno e mi maledissi mentalmente, domandandomi come avevo fatto a non accorgermene prima. «Guarda, lì c'è una casa, chiederemo al proprietario di ospitarci per questa notte e domani risolveremo tutto» suggerii.

Dario non poté fare altro che concordare, avevamo entrambi bisogno di dormire, poiché erano due giorni che non chiudevamo occhio per mettere in atto il nostro piano. «Elia,» disse poi mentre ci incamminiamo verso la dimora «sai che mia sorella si è lasciata? È tanto triste...»

«Dario, non sono interessato a tua sorella, è tanto strana...»

«Non ti permetto di parlare così di mia sorella!»

Erano anni che tentava di farmici fidanzare, ed erano anni che rifiutavo l'offerta. Sua sorella era praticamente Dario, ma coi capelli lunghi e bruciacchiati, e il rossetto sbavato agli angoli della bocca.

Arrivammo di fronte la porta di quella piccola casa fatta in pietra. Bussammo e ci accolse una donna sulla cinquantina. Indossava una strana vestaglia da notte e la casa era trascurata quanto lei. Certo che il mio professore di informatica aveva ragione: dal modo di vestire di una persona si possono comprendere tante cose! Chissà che fine aveva fatto quell'uomo? Erano dodici anni ormai che non lo vedevo!

La donna ci indicò un corridoio e io le chiesi dove fosse l'interruttore della luce, poiché non riuscivamo a vedere niente. Lei a «interruttore» aveva un'espressione persa e confusa; a «luce» si illuminò e mi diede una candela.

Raggiungemmo la stanza da lei indicata e trovammo due letti che avremmo, subito dopo, definito abbastanza scomodi.

«Certo che la gente povera è molto più sensibile» dissi. «Prendiamo come esempio questa signora: hai visto che gentile? Nonostante non riesca neanche a pagare la bolletta della luce, ci ha calorosamente accolti in casa sua».

Il biondo annuì. «Hai pienamente ragione. Avrei voluto vedere Berlusconi al suo posto! Ci avrebbe mandati via a calci nel sedere».

I nostri ragionamenti non facevano una piega, ma avevamo esaurito tutte le energie necessarie per continuare quel discorso. Mi adagiai, dunque, su uno dei due letti; non erano altro che sacchi di stoffa con dentro probabilmente paglia o fieno. «Che umiltà!» commentai con gli occhi che luccicavano.

«Questa gente dovrebbe essere benedetta!» rispose Dario.

«Senz'altro!» replicai a mia volta, ignaro del mal di schiena che mi avrebbe colpito il mattino successivo.

Che Giove ci aiutiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora