Quattuor

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Rientrammo nella Curia, era vuota, c'era l'eco, i nostri passi tuonavano sul pavimento. Probabilmente i Senatori erano andati via da un'uscita segreta... o da una semplice uscita. Bruto camminava davanti a noi. Ero agitato, in ansia, non volevo perdere la vita in un'epoca che non mi apparteneva. Quel traditore aveva ancora con sé il pugnale (non che riuscissi a vederlo, ma lo teneva sicuramente nascosto fra le pieghe della toga). Camminavamo ancora, ipotizzai che dovessimo raggiungere una stanza in fondo alla Curia.

Dario tremava. Era dietro di me, come se stesse tentando di nascondersi ma con scarsi risultati; aveva entrambe le mani poggiate sulle mie spalle, il suo respiro era sempre più affannoso e tremendamente fastidioso.

«Puoi smettere di respirare?» sbottai. «Mi metti ancora più ansia! È come se ci fosse Bruto dietro di me, pronto all'attacco».

Lui mi si scostò di dosso. «Pronto all'attacco?» domandò corrugando le sopracciglia.

«Perché? Non l'hai capito? Questo ci ammazza!»

«E allora perché lo stiamo seguendo?»

«Volete tacere?». Ci immobilizzammo nel sentire la voce di Bruto che riecheggiava per tutta la sala, sembrava parecchio arrabbiato. Avevamo appena messo piede in quella Roma e volevano già farci fuori.

Tornammo a camminare. «Chiamalo fesso...!» borbottai con fare stupito. Avevo sempre pensato a Bruto come un ragazzino in piena crisi adolescenziale, privo di rispetto, invece dovetti ricredermi: era un vero uomo (ma solo fisicamente). D'altronde, aveva ammazzato Giulio Cesare! Per fortuna io e Dario avevamo impedito che accadesse una tale disgrazia. Meno storia da studiare per gli studenti del futuro.

Però provavo molta antipatia nei suoi confronti. Come osò uccidere l'uomo più importante di tutta Roma? Il primo cittadino! Il supremo! Il grande e irreprensibile! Caio Giulio Cesare! Stranamente iniziai a prendere dimestichezza con la storia, grazie alle informazioni che Dario e Cicerone mi avevano riferito. Per me era una storia contemporanea, oramai.

Svoltammo a destra, entrando tramite una piccola porta che conduceva a un'altrettanta piccola stanza. L'eco non c'era più. Solo una scrivania in legno, candele, e una finestra semichiusa.

Bruto si passò una mano fra i capelli, era impaziente, sembrava che da un momento all'altro sarebbe esploso. «Adesso voi mi raccontate tutto!» strillò. «Voglio sapere ogni. Minimo. Dettaglio» pronunciò scandendo bene le parole.

Avanzai timidamente d'un passo. Mandai giù quel poco di saliva che mi era rimasta in bocca, e cominciai a parlare. «Be', io sono nato in una fredda notte di febbraio... i miei genitori, però...».

Mi fermò subito. «Come sapete del complotto?» chiese. Si poggiò sul bordo della scrivania e attendeva una risposta, la voleva al più presto.

Dario fece un inchino prima di esporre la sua tesi. «Se posso permettermi, Vostra Maestà... noi, anzi, io... ho studiato le fonti scritte che riportano, anche se con scarsi dettagli, ciò che sarebbe dovuto accadere oggi».

Bruto si soffermò a pensare. «Dev'essere stato uno dei Senatori, non c'è altra spiegazione. Un traditore ha sicuramente scritto della riunione di ieri sera...» mormorò fra sé. «Dove avete trovato queste fonti?» chiese, poi, guardando entrambi.

Questa volta parlai io, gesticolando in maniera abbastanza evidente. «Sai com'è... a scuola, in libreria... dappertutto, insomma» spiegai.

Lui spalancò gli occhi. «Dappertutto?» urlò. Adesso sembrava essere nel panico più totale.

Tentai di rassicurarlo. «In futuro, intendo. In futuro queste fonti saranno dappertutto. Cos'è? Credi che non entrerai nella storia? Cioè, vivi nella Roma antica, a stretto contatto con Giulio Cesare... ma probabilmente ora non avrai più tutta questa influenza...».

Sembrava spaesato, ma preferì non dare peso alle mie parole (meno male, altrimenti avrebbe fatto tante altre noiosissime domande e io avrei dovuto sbattere la testa contro il muro per cercare delle credibili risposte). «Sapete...» disse Bruto, avanzando verso di noi. «Per i miei gusti [io e Dario deglutimmo a fatica], voi due sapete troppe informazioni. Troppe cose che non vi riguardano». Non aveva mai smesso di stringere il tessuto della sua veste.

Io gli dissi che eravamo dei semplici cittadini. Pagavamo le tasse, qualche volta facevamo la raccolta differenziata, forse... Sì, era proprio ora di andare. Mi voltai, prossimo ad aprire la porta. Una mano si poggiò sulla mia spalla, era Bruto.

Prelevò il pugnale, dicendo che non saremmo potuti andare da nessuna parte. Riuscì a bloccare la porta posizionandosi davanti a essa.

Io e Dario indietreggiammo, fin quando non sfiorammo il bordo del tavolo. «Bruto, ti prego, prendi Dario, sa molte più cose di me! Io sono ignorante, credimi. I professori dicevano che ero senza speranza. Non sono nemmeno laureato!» mi accorsi che la mia voce tremava insieme alle mie mani e alle mie gambe.

Dario mi rivolse un'occhiata che ancora oggi ricordo, ben incisa nella mia mente. Pensai quasi mi odiasse. «Non ascoltarlo, Bruto! Dicono tutti così!».

Gli chiesi se volesse cominciare a litigare proprio sul punto di morte; lui mi rispose di sì, fosse l'ultima cosa che avrebbe fatto. Ma per Bruto eravamo diventati estremamente insopportabili. «Avete un ultimo desiderio?» chiese facendoci zittire.

Dario non parlò, ma io invece annuii. «Il mio desiderio è sempre stato quello di morire dopo aver ammirato per l'ultima volta il Colosseo» risposi.

Bruto corrugò la fronte. «Il... Colosseo?» domandò con il volto di un me quattordicenne che cercava di capire il perché i numeri in matematica avessero preso le sembianze delle lettere.

«Sì,» esclamai «il Colosseo». Mi chiese cosa fosse. «È un anfiteatro» replicai. «È a forma di ellisse» aggiunsi, notandolo ancora confuso. «È abbastanza spazioso» continuai. «Al centro c'è un'arena per svolgere gli spettacoli, circondata da una grande cavea con i sedili per gli spettatori». Non conoscevo più informazioni di queste.

«Di che materiale è fatto?»

«Che ne so? Pietre... credo».

Mi chiesi che piano avesse, ora, dato che sembrò averci riflettuto parecchio. «D'accordo» disse. «Tu mi servi» mi indicò. «Tu invece...» adesso era il turno di Dario. «Di te potrei anche farne a meno».

Il biondo spalancò gli occhi. «Ma... ma io sono un ottimo... un ottimo consigliere! Posso anche io aiutarti, Bruto». Si gettò con le ginocchia a terra, come se volesse venerarlo. «Ti scongiuro!» lo implorò. Io osservai la scena con evidente perplessità. Dario, in quel momento, risultava ancora più strano di sua sorella.

Bruto si carezzò il mento. «Tre giorni» disse. «Hai tre giorni di tempo per dimostrare di essere quello che dici. Se non sarà così, considerati pure un uomo morto».

Dario annuì ripetutamente. «Certo, ti ringrazio» rispose.

«Adesso alzati in piedi» esordì. «Cesare potrebbe sospettare di qualcosa». Aprì la porta, poi si girò di scatto. «Voglio rivedervi fra due giorni esatti. E vi raccomando, non osate lasciarvi sfuggire più parole del dovuto».

Che Giove ci aiutiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora