Capitolo 1 (parte uno)

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"Date mille lingue a una notizia gradita,
e le disgrazie si annuncino da sé nel momento in cui colpiscono"
William Shakespeare

Cosimo

Era una comune mattina di dicembre.

Mi misi davanti alla finestra e chiusi gli occhi: ascoltai il vento, come ogni volta che ero da solo per non ascoltare, invece, quella vocina nella mia testa che mi diceva: «Fallo

Quel leggero soffio gelido mi portò letteralmente in estasi, ma poi capii che non potevo rimanere davanti a una finestra per una giornata intera a non fare assolutamente nulla. Così sbuffai e girai i tacchi per dirigermi verso la cucina, nella speranza di non incontrare mio padre, Angelo. E invece, lui era già in quel locale della casa, seduto al bancone della cucina come ogni mattina. Alzai gli occhi al cielo appena lo vidi girarsi verso la mia figura debole e indolenzita.

In fin dei conti non avevo un buon rapporto con lui e nemmeno mi interessava averlo, visto che aveva divorziato con mia madre, Sofia. Devo ammettere che all'inizio era stata dura, soprattutto perché mi ero ritrovato a non avere più nessuno accanto ventiquattr'ore su ventiquattro. Mia madre la vedo tuttora solo una volta al mese come stabilito dal giudice (che poi si trasforma una volta all'anno per via dei suoi ripetuti impegni, ma nemmeno un santo ci crederebbe), e quelle poche volte in cui ci vediamo cerca di fare la madre compassionevole, che capisce i miei problemi adolescenziali, ma diciamo che quella parte non le riesce per niente bene. In fondo, se non si nasce attori, non si può diventarlo dal giorno alla notte.

«Finalmente ti vedo un po'» mi rimproverò mio padre, con un'aria un po' preoccupata.

Come da abitudine non risposi ma rimasi in silenzio. Negli anni avevo imparato a fare del silenzio la mia arma migliore e sapevo che per i miei genitori quel silenzio era diventato parecchio straziante, tanto da lasciarmi in pace la maggior parte delle volte.

«Vedo che anche oggi sei di molte parole...» notò, provando a fare il sarcastico. Alzai di proposito le sopracciglia per fargli intendere che quella era la massima risposta che poteva ricevere non solo quella mattina ma anche per i giorni a seguire. «Dobbiamo parlare» annunciò, dopo aver osservato la mia orrenda faccia per un paio di secondi.

L'ultima volta che quelle parole mi avevano affilato i timpani era stato cinque anni prima, quando doveva comunicarmi che mia madre era andata via di casa per un litigio che aveva messo completamente in crisi il loro rapporto. Quindi, immaginavo già cosa stava per raccontarmi.

Negli ultimi due anni aveva trovato una nuova compagna. Spesso girava per casa nostra, ma ogni volta avevo fatto di tutto per evitarla. Non volevo che un'estranea entrasse a far parte della mia famiglia, non volevo nessun'altro. Le cose non andavano bene quando mia madre e mio padre erano ancora sposati e ora che avevano divorziato le cose andavano quasi peggio di prima.

Perciò, prepariamoci a reagire a questa splendida notizia.

«Di cosa?» feci il finto interessato.

«Ti va se preparo un tè caldo?» cercò di addolcire la pillola.

«Io lo bevo sempre freddo...»

«Non ci avevo nemmeno pensato, scusami. Hai proprio ragione.» Mi sorrise. «Sempre con ghiaccio?» domandò mentre si girava per prendere l'occorrente per prepararlo, quindi ghiaccio dal congelatore, acqua del rubinetto e un paio di bustine di tè.

«Sì» risposi con un filo di voce, andando a sedermi su una sedia vicino al tavolo in cucina.

Casa nostra si poteva quasi definire una villa da quanto era grande: le stanze erano quasi una cinquantina di metri quadri ognuna e spesso erano tutte spoglie per via della grandezza eccessiva, avevamo una donna che ci faceva le pulizie e anche un giardiniere che teneva in ordine il viale alberato per entrare nella villetta, il garage e il piccolo piazzale interno che usavamo come parcheggio degli ospiti. Inoltre, nel seminterrato, parte della casa dove potevo andarci solamente io, c'era una piccola palestra personale dove tenevo qualche attrezzo per allenarmi e soprattutto il mio amatissimo sacco da boxe che mi aspettava ogni mattina appena mi svegliavo, dopo aver fatto una corsetta.

Passarono un paio di minuti da quando mio padre iniziò a preparare il tè e arrivò con due tazze piene zeppe. Mi porse la mia e cominciai a sorseggiarlo, sentendo il battito del cuore accelerare un po' per quello che sarebbe successo da lì a poco. Non sapevo cosa volesse dirmi, ma sapevo per certo che se mi aveva fatto sedere era davvero importante l'argomento. D'altro canto, non ero molto famoso per la corretta gestione delle situazioni anomale, quindi mi sarei dovuto impegnare nel controllare le mie emozioni.

Il tempo trascorse e nessuno dei due osò fiatare fino al momento in cui entrambi non finimmo di bere il tè. «Papà, non ho tutto il tempo del mondo da perdere. Sono già in ritardo per andare da Luca» lo spronai a esprimersi.

Allora prese coraggio e parlò: «Gioia e Matilde si trasferiranno a vivere qui la settimana prossima.»

«Chi è Matilde?» chiesi con un tono indifferente, ma in realtà ero molto più che preoccupato.

«La figlia di Gioia, ha diciassette anni. Andate...»

Smisi di ascoltarlo. Avevo fatto di tutto per evitare quella... quella persona, definiamola così. Avevo fatto letteralmente di tutto per non incontrarla e non conoscerla e ora ben due sconosciute, una evidentemente non bastava, pretendevano di entrare in casa nostra? Non volevo una nuova famiglia, mi era già bastata quella che si era sgretolata anni prima.

Non mi resi nemmeno conto di star stringendo troppo la tazza: le nocche erano diventate di un bianco avorio mai visto in vita mia e al di sotto si vedevano le vene sporgere. Feci cadere la tazza dalla rabbia che mi circolava in tutto il corpo.

Avevo bisogno di uscire da quelle mura che mi soffocavano.

Il mio piano di autocontrollo stava già andando a puttane dopo dieci secondi di conversazione.

«Quando pensavi di dirmelo, eh?» domandai adirato, senza togliere lo sguardo dai mille pezzi di ceramica che c'erano sul pavimento a causa della tazza che avevo accidentalmente fatto cadere. «E quando pensavi di comunicarmi che ha una figlia?» sbraitai ancora.

«Cosimo, per favore, non prendertela. Le persone vanno avanti con la propria vita, non si può rimanere ancorati al passato, altrimenti non ti permette di viverla a pieno. Sto insieme a Gioia da più di due anni ed è arrivata l'ora di fare un passo avanti...» cercò di spiegarmi, ma il mio cervello era troppo impegnato a mantenere il controllo per ascoltarlo e comprendere il significato delle sue parole. «Non ti ho mai detto di sua figlia, perché stavo aspettando il momento giusto per dirtelo, ma nell'ultimo periodo sei sempre più strano e, quindi, ho rimandato fino a...»

Non lo feci nemmeno finire la frase, che sbattei la porta di casa il più forte possibile. A momenti sarebbe potuta cadere a terra dal tonfo. Salii sulla mia BMW X3 per correre da Luca, il mio migliore amico dai tempi dell'asilo.

Maledissi mio padre in silenzio per tutto il tragitto e mi promisi che, nel momento in cui avessero messo piede dentro casa mia, avrei fatto passare loro l'inferno vero e proprio.

Che si preparino alla guerra, pensai.

Appena arrivai davanti al cancello, non ci pensai due volte a suonare il campanello. Trascorsero un paio di minuti ma nessuno mi aprì, però notai che la finestra della stanza di Luca non aveva gli scuri chiusi, quindi era sicuramente a casa. Decisi allora di tenere premuto il dito sul campanello, in modo da dargli così tanto fastidio e obbligarlo ad aprirmi il più in fretta possibile. Infatti dopo neanche dieci secondi si affacciò alla finestra e mi fece il dito medio, imprecando e digrignando i denti.

Nel momento in cui aprii il cancelletto e lo varcai, ebbi un leggero mancamento. Vidi tutto sfuocato e poi tutto nero e mi aggrappai d'istinto ai pioli del cancelletto. Sentii il fiato diventare corto e il sangue esplodere sotto la cute. I tagli stavano andando a fuoco e mi concentrai su quel bruciore per rimanere cosciente. Riuscii a riprendermi giusto in tempo all'arrivo di Luca sulla porta d'ingresso. Alzai lo sguardo e mi concentrai sulla sua figura. Era ancora in pigiama, essendo domenica pomeriggio, che era composto da un paio di pantaloni della tuta e una maglietta enorme che usava durante gli allenamenti di rugby.

É solo la rabbia, mi dissi.

«Non avevi fretta di entrare?» mi prese in giro, divertendosi, senza notare il mio momento di poco prima e ringraziai il cielo in silenzio.

«Sei tu che ci metti un sacco ad aprire alla gente!» ribattei, ridendo. «Pensa se ti venisse a trovare una ragazza, scapperebbe via subito!»

«Hai intenzione di rimanere sul cancello o di entrare?» continuò, ignorando la mia affermazione.

«Un attimo! Sto arrivando!»

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