Prima parte

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La sala del commiato è l'unica stanza in questo cubo di pietra bianca e vetro brunito.

Somiglia a uno di quei palazzoni che fanno da scenografia ai quadri di De Chirico. Bianco immacolato e finestre scure, archi neri. E nient'altro. Un teschio e decine di occhi.

Siamo sole, qui dentro: io e la bara. Siamo sole, qui: io e mia madre.

Gli inservienti del cimitero mi hanno aperto la porta. A bassa voce mi hanno informato che il forno della cremazione non sarà attivo prima delle nove. E che, comunque, prima dell'arrivo del responsabile delle onoranze funebri e del direttore della clinica psichiatrica, non possiamo procedere. Un'ora, ancora. Almeno.

Burocrazia più fredda del legno della bara. Forse pure di quelle quattro ossa foderate di pelle che ci stanno dentro. Non so in che condizioni fosse, quando i necrofori l'hanno composta. Quando sono arrivata, la bara era già sigillata. Qualcuno, in questi casi, dice sempre che è meglio conservare un ricordo diverso dall'immagine rigida di un cadavere. Rigida e fredda. A me, di tutto questo, davvero importava poco. Mi bastava sapere che era lì dentro. Morta. Fredda.

Burocrazia e sentimenti. In questo momento, abbracciati in una cosa sola. Una cosa fredda. Sì, forse pure più fredda anche di mia madre.

Ancora un'ora; forse qualche cosa di più.

Misuro a passi nervosi la stanza. Lungo, largo. Guardo la mia ombra allungarsi rimpicciolirsi, cambiare forma, a seconda di come mi muovo, nell'unico cono di luce che arriva dalla porta. Tengo le mani strette attorno ai polsi dietro la schiena; almeno le dita, così, sono costrette a stare ferme.

Sussulto; mi si blocca un attimo solo il cuore nel petto.

Trillo digitale: non ho silenziato il cellulare.

Inconsciamente, per la cara estinta lì dentro, non ho sentito di dover usare nemmeno questa cortesia. Infilo la mano nella borsa, sfilo il telefonino: Babbo Carlo. Prima di rispondere inforco la porta ed esco nella luce. Tiro un respiro forte, quasi che lì dentro mancasse l'aria. O fosse cattiva. Non voglio sporcare questo momento, mi sembra di sentire questo bisogno.

- Sì, tutto bene, grazie Carlo...

Due passi.

- Sì, credo ancora un paio d'ore. Sola...

Il candore di Carlo mi disarma, come sempre.

- ...no ma figurati, lo sapevo. Anche volendo, chi avrei potuto chiamare?

La cortesia di quell'uomo e la sua discrezione sono il solito regalo inatteso. Mi conosce bene, troppo bene. Ed è bravo a non farmelo pesare mai. Un padre; il padre che non ho mai avuto. Del resto, com'è che si dice? I figli sono di chi se li cresce. Ecco: per Carlo e Marta, a livello biologico, io non sono mai stata niente. Eppure, dal giorno in cui sono stata affidata a loro, hanno saputo essere da subito madre e padre. Madre e Padre con maiuscole meritate. Genitori e tutto quello che c'è prima e dopo.

- Tranquillo, Carlo, davvero. È solo che ho lavoro da sbrigare qui a casa... Sì la riunione coi pubblicitari di domani. Rientro venerdì, però. Sì, al controllo voglio ci siate.

Il sole qui fuori è forte. O sono solo gli occhi che si erano già perfettamente abituati al buio di quello stanzone. Gli occhiali in macchina, cazzo! Rinforco l'ingresso; le ultime battute con Carlo sono lo scambio solito da quando ho lasciato la nostra casa per trasferirmi in città.

- Dai un bacio forte a mamma... Ciao Babbo... un bacio, ciao...

Mentre sorrido ripensando alla semplicità con cui scambio il nome Carlo con la parola Babbo mi ritrovo sotto gli occhi il feretro. Di nuovo.

Dentro quel coso freddo di legno laccato alla bell'e meglio ci sta la donna che mi ha messo al mondo. Mi mordo il labbro di stizza quando mi rendo conto che prima di rimettere in borsa il telefono, in automatico, ho inserito la vibrazione. Un gesto inconscio di rispetto, adesso. Un gesto, un rispetto, che quel corpo, lì dentro, non merita.

Seguo la mano che mi scivola sulla pancia. Accarezzo quella forma nuova a cui non faccio in tempo ad abituarmi che già cambia di nuovo. La mia creatura. Solo mia, perché i figli sono di chi vuol tenerseli, non di chi li fa e poi scopre di non essere affatto pronto.

No, amore mio, tu no. Piccola mia, tu non dovrai sapere cosa sono le grida cattive e le vene al collo. Non saprai mai quanto graffiano le unghie di mamma, quanto possono far male le sue dita, quando ti stringono la gola, le braccia, le coscette. Non saprai, lo giuro, mai, quanto è buio il fondo di uno stanzino. Io non ti farò mai sapere quanto sa di ferro il digiuno e quant'è amaro non poter neppure bere.

Tu no, amore di mamma... Tu, no.

Quante volte l'ho recitata, questa specie di preghiera, da quando ho scoperto che diventerò madre? Non lo so più; non si può sapere.

Forse ogni volta che ho sfiorato la pelle tesa del grembo e ho accarezzato la pancia. Ed ogni volta ho aggiunto o tolto un verso. A seconda del ricordo che quel giorno mi faceva più paura. Ero capace di andare avanti per ore a mettere in fila ricordi e versi. Mi fermavo solo quando qualcosa arrivava a distrarmi.

Una interferenza che non aspettavo.


Il respiro della cenere - Archology 0.003Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora