Una lunga notte

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Dopo essermi messo il camice, corsi giù in pronto soccorso.

Solitamente sotto le festività c'era sempre un via vai di pazienti.  Come se decidessero tutti di comune accordo di farsi del male.  Dovrebbero essere giorni felici, invece capitava sempre che qualcuno si  faccesse male mettendo gli addobbi. Le festività si trasformavano in  tragedie per alcune famiglie. Questo mi faceva sentire decisamente meno  solo.

Sarebbe stata una lunga notte.

Amavo l'ospedale.

Amavo il pronto soccorso.

Amavo il mio lavoro.

C'era sempre agitazione. Era impossibile trovare un attimo di tregua,  ma mi piaceva. Nonostante il caos, lì trovavo la mia pace, il mio  rifugio. Forse perché quando mi ci immergevo, lasciando tutto fuori,  ritrovavo la quiete.

Ognuno era intento nel suo lavoro. Ognuno preso dai suoi pensieri e  dai suoi problemi. A volte mi stupivo delle persone. Mi sorprendevano  ogni giorno. Scoprivo parti dell'animo umano che mi destabilizzavano.  Ogni uomo aveva una storia da raccontare. Alcune erano belle, altre di  meno. La mia non lo era di certo. Non era stata clemente con me, la  vita, ero consapevole che questo era solo l'inizio e questo mi avevo  portato inevitabilmente e chiudermi come un riccio. Avevo già sofferto  tanto e non avevo intenzione di riprovare dolore. Non facendo entrare  nessuno, mi salvaguardavo dal mondo e dalle persone.

Raramente regalavo sorrisi.

Raramente regalavo il mio tempo.

Raramente regalavo me stesso.

Mi avvicinai al mio superiore, uno stutturato. Era una donna sulla  quarantina. Era stata una delle prime persone che mi aveva accolto quì  all'ospedale e mi aveva aiutato ad ambientarmi. All'inizio era stata  premurosa e comprensiva. Mi aiutava con i pazienti e mi dava dritte sul  comportamento che dovevo avere in ospedale. Una volta preso il ritmo,  prese le distenze da me, e anche dagli altri specializzandi del mio  anno. Lo aveva fatto per far crescere dei medici con le palle. Non  potevamo sempre andare da qualcuno a piangere se qualcosa andava storto o  se qualche paziente moriva. Ed era una cosa che capitava molto più  spesso di quanto uno potesse immaginare. Eravamo in un ospedale. A volte  si riuscivano a salvare vite, altre volte no. Le prime volte era stato  difficile mandar giù la morte di un paziente e diventava ancora più  doloroso quando si familiarizzava con lui. Avevo dovuto dare la colpa ad  una legge divina, per riuscire a rassegnarmi ogni volta. Semplicemente  mi autoconvincevo che la vita di ognuno di noi fosse una clessidra.  Quando scadeva il tempo, nessuno poteva più trattenerci su questa terra.

Si chiamava Louise, il mio superiore, Louise Teasdale. Una bella  donna bionda slanciata. Se non fossi stato terribilmente gay, ci avrei  fatto un pensierino, nonostante la differenza d'età.

"Louis, non ti aspettavo prima delle dieci. Perfetto! Qui abbiamo  bisogno di tutto l'aiuto possibile. Stanno arrivando dei feriti, un  incidente d'auto. Seguimi!"

Era così terribile essere entusiasti del proprio lavoro? Implicava  sangue e dolore, ma almeno avrei avuto le mani occupate. E ancora di più  la testa. Infondo, il nostro lavoro era quello: salvare le vite. Se non  ci fossero, io sarei disoccupato e profondamente infelice.

La seguì correndo fuori nel parcheggio dove arrivano le ambulanze.  Niall era lì ad aspettare l'ambulanza con gli altri specializzandi.

Perfetto. Ci mancavano solo i suoi sorrisi scintillanti!

"Ehi, Louis. Brutta giornata?"

"Come sempre, irlandese. Non vedo una bella giornata da troppo tempo".

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