3. Pioggia

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Cominciò a piovere.
Ebbene sì.
Piovere.
Fino a due minuti prima il sole splendeva su di noi, anche se l'aria mi sembrava talmente fredda e spaventosa che non ci avevo fatto troppo caso; in quel momento, invece, sentii un gelo improvviso penetrarmi nel corpo e una pioggia fitta e persistente iniziò a caderci addosso.
Avete presente i temporali estivi, quando state giocando a piedi nudi sulla strada e improvvisamente la luce scompare, il cielo si annuvola, e nel giro di qualche secondo un torrente vi piove sulla testa?
Accadde esattamente così, con la differenza che il cielo non sembrava essersi annuvolato: sembrava semplicemente scomparso, sostituito da una cappa grigia e opprimente.
Proprio come l'umidità nella calura estiva, era soffocante.
La gente intorno a noi aveva rotto la fila ordinata per sparpagliarsi terrorizzata nei dintorni.

"Manca l'aria, mamma!"
In mezzo al rumore furibondo della pioggia, la voce spaventata di un bambino suonò limpida e innocente; riuscivo appena a scorgere, a pochi metri da me, due fratellini stretti ai genitori.
Li vedevo brillare tra le gocce, percepivo la loro presenza e riuscivo facilmente ad associare loro un colore: erano verdi, verdi come l'ingenua speranza infantile, verdi come quel prato su cui tante volte avevo rotolato in passato, e che ora mi sembrava così distante.
E poi l'aria arrivò; arrivò come non l'avevo mai sentita prima, arrivò talmente forte che iniziò a spazzare via le gocce d'acqua prima che riuscissero a toccare il terreno. Eppure era talmente gelido, questo vento, che lo sentivo penetrare tra le più piccole fessure del cotone già bagnato che avevo addosso, e mi sembrava di essere ancora immerso nell'acqua, da cima a fondo. Le ultime gocce di pioggia rimaste a mezz'aria erano state colte di sorpresa dalla bufera, e lottavano disperatamente per raggiungere il suolo: il vento freddo e implacabile le sferzava senza pietà contro ogni cosa, contro i miei occhi che faticavano a restare aperti, contro la figura blu poco distante da me, che non riuscivo a distinguere, ma sapevo essere Jamie.
Doveva essere lui.
Più cercavo di avvicinarmi per afferrarlo, più il vento mi spingeva indietro, a destra, a sinistra. Sopra, sotto.
Ogni folata mi sferzava il corpo come un violento schiaffo, quasi fosse una madre furibonda e ormai priva di senno che rimprovera un figlio per essere tornato a casa stonfo e infangato. Anche il mondo aveva perso qualsiasi sprazzo di razionalità, e, mentre giravo su me stesso spinto senza sosta da queste mani gelide, anche la terra sembrava ruotare sotto i miei piedi e temevo che se avessi tentato di chiamare Jamie avrei finito per vomitare. Per non parlare del sibilo del vento che mi ululava nelle orecchie più forte di qualsiasi altra voce, più forte della voce di Jamie che era ormai troppo lontano perché io riuscissi a vederlo o a sentirlo mentre mi chiamava disperato.
Caddi a terra mentre tentavo con ogni forza rimastami in corpo di lanciarmi nella direzione in cui per l'ultima volta mi era sembrato di vedere uno sprazzo di blu; colpii con forza il suolo duro e spigoloso e mi raggomitolai su me stesso, ignorando il dolore.

Da bambino mi mettevo spesso in questa posizione, quando avevo bisogno di sentirmi protetto; a volte piangevo e restavo fermo così, immobile, in attesa che un abbraccio e una carezza di Jamie facessero passare il dolore e lo spavento; crescendo avevo iniziato, come tutti, ad affrontare a volto scoperto i miei timori e a diventare, piano piano, un adulto fiducioso e sicuro.
Ma in quel momento mi sentii esattamente come il bambino che ero stato una volta, quello che dopo una caduta si accucciava a terra e piangeva su se stesso, disperato. Mi abbandonai al terrore e all'ululato del cielo, e piansi, piansi sperando che tutto questo finisse, piansi riempiendo di lacrime il cotone già inzuppato che mi si appiccicava addosso.
Non potevo reagire. Non potevo fare nulla se non aspettare, e sperare che Jamie tornasse a rassicurarmi come aveva sempre fatto.
Eppure, dentro di me, ero certo che lui mi stesse cercando, che non si fosse arreso alla tempesta e stesse lottando con ogni sua forza per mantenere la sua promessa.
Qualsiasi cosa accada, non ci lasceremo mai.
Probabilmente anche lui pensava che io lo stessi cercando... e invece ero qui, a disperarmi come un bambino senza trovare la forza di affrontare l'aria gelida che mi picchiava contro.
Era per questo motivo che non gli avevo fatto promesse, perché quando le faccio voglio essere sicuro di mantenerle.
Tra gli ululati del vento mi sembrò di sentire la sua voce, la sua voce che urlava il mio nome. Invano.
Non mi mossi, non lo cercai. Non ebbi la forza di alzarmi né di alzare lo sguardo, non riuscii nemmeno a capire se quella voce fosse attorno a me o dentro alla mia testa. Rimasi lì ad aspettarlo, non so per quanto tempo, non so perché lo feci.
L'unica cosa che so, a distanza di anni, è che, se quella voce apparteneva davvero a Jamie, fu l'ultima volta che la udii: attesi inutilmente che venisse ad abbracciarmi, a dirmi che non c'era più motivo di avere timore perché ormai la tempesta era finita.
E la tempesta finì davvero.
Ma Jamie non venne mai a dirmelo.

Un sogno nel cassettoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora