«Rilessi le letterine dei bambini per la terza volta, seduta ai piedi del grande albero che svettava al centro della sala grande.
Le riposi nel cestino in cui i piccoli le avevano depositate dopo la cena domenicale e stropicciai gli occhi stanchi.
L'orfanotrofio era silenzioso e buio, solo le lucine dell'abete mi mostrarono il cammino fino alla scalinata principale. Salii lenta e pensierosa.
L'innocenza dei più piccoli mi aveva sempre rattristata, erano così ingenui e fiduciosi nel Natale. Aspettavano con ansia quel giorno magico e ricco di speranza, desiderando di trovare una famiglia, una casa e l'amore.
Anch'io ero stata come loro, ma dopo i dieci anni non ci ho più creduto. Per me, non esisteva il Miracolo di Natale, essere più buoni non realizzava i nostri sogni, ci illudeva che tutti meritassero la felicità.
Lo odiavo.
Sbuffai, nervosa, e ritornai nella camerata, mi distesi sotto le coperte e chiusi gli occhi, cercando di dormire.
La sognai di nuovo. Prima di Natale la sognavo sempre da quando aveva smesso di scrivermi.
Erano cinque anni che non ricevevo più le sue lettere di Natale, cinque anni in cui avevo odiato il giorno del mio compleanno.
Nessuno ricordava mai il mio compleanno, tutti erano sempre stati troppo impegnati a festeggiare il Natale per pensare anche a me, ma non mi importava. La lettera annuale di mia madre mi rendeva felice e mi bastava.
Almeno fino al mio decimo compleanno. Poi, come tutti i bambini che alla stessa età smettono di spedire letterine a Babbo Natale, mia madre smise di scrivermi.
Mi svegliai di cattivo umore e, come di consueto, ripescai la scatola dei ricordi da sotto il letto.
La aprii di fretta e ci rovistai dentro, fino a trovare le quattro lettere che mi avevano rallegrata durante i primi anni in orfanotrofio.
Rilessi le promesse vuote di mia madre e lacrime amare mi solcarono le guance.
"Buon compleanno, mio Miracolo di Natale", "Mi manchi, Angelo mio", "Tornerò presto", "Solo un altro compleanno prima del mio ritorno".
Queste erano le chiusure delle sue lettere, ma lei non era ancora tornata.
Rimisi tutto a posto e scesi a fare colazione prima di tutti, così da evitare la loro inutile allegria.
Era la Vigilia di Natale, la vigilia del mio compleanno, ma nessuno si sarebbe interessato a me.
La giornata passò come al solito, tra le risate e i canti dei bambini. Io sedevo in disparte a osservare quello spettacolo illusorio. Mangiai a malapena e rimasi in silenzio per la maggior parte del tempo.
"E domani sarà ancora peggio", pensai, trovando sollievo solo sotto il piumone caldo.
La mattina seguente, come tutti gli anni, nessuno, né piccolo né adulto, si ricordò del mio compleanno. Sospirai, consapevole che nulla sarebbe cambiato neanche quell’anno, e mi recai a fare colazione, mentre i bambini si fiondavano sotto l’albero di Natale alla ricerca di un regalo. L’orfanotrofio riceveva dei doni di beneficenza ogni anno, si trattava per di più di giocattoli ma anche di qualche capo di abbigliamento, nulla, però, era adatto a me. Ero troppo grande per essere ancora lì. Rifiutando di abbandonare l’edificio con una qualsiasi famiglia sconosciuta, ero rimasta in attesa di mia madre e, adesso, ero sola e troppo cresciuta.
Smisi di mangiare e corsi nel giardino ricoperto di neve per poter stare da sola.
Piansi tanto quella mattina. Solo all’ora di pranzo, infreddolita e con un cuore ancora più freddo e rigido, decisi di rientrare e di concedermi un pasto caldo. Mi alzai dalla panchina gelida e mi ripulii dalla neve candida che si era infilata nei capelli e nel cappotto. Mi diressi verso l’ingresso, tremando per il freddo e per il dolore.
Fu allora che un’auto percorse il sentiero dietro di me e suonò il clacson.
Mi voltai, infastidita, e notai una donna di mezz’età scendere dal lato del guidatore. Era sola e indossava un cappotto scuro.
Mi si avvicinò e sventolò una mano per salutare: “Salve, cara, potresti accompagnarmi…”
La voce sfumò e la donna spalancò gli occhi verdi e brillanti. La osservai con attenzione, aggrottando la fronte. Aveva un aspetto familiare e questo mi fece tremare di incredulità. Il cuore mi salì in gola. La riconobbi e lei riconobbe me. Scoppiò a piangere e mi abbracciò: “Il mio miracolo di Natale. Scusa il ritardo, angelo mio.”
In quel momento, pensai che avrei dovuto sentirmi distrutta e tradita, invece, ricambiai l’abbraccio e rinacqui. Non riuscivo a credere che, alla fine, fosse tornata a prendermi.
Dopo quasi dieci anni, ascoltai quello che aveva da dire con la sua voce e non tramite parole su carta. Ascoltai la sua storia e la compresi. Lei ascoltò la mia storia e non smise di piangere.
Furono il Natale e il compleanno più belli della mia vita.
Ed è per questo che oggi sono qui, bambini, a porvi i miei più veri auguri. Non smettete mai di credere nel potere di questo giorno speciale. Il miracolo di Natale esiste davvero!»
Una bambina alza la mano, preoccupata: «Anche Babbo Natale?»
Aggrotto le sopracciglia, confusa, e lei mi ricorda che all’inizio del racconto avevo detto che a dieci anni i bambini smettono di credere in Babbo Natale.
La direttrice mi guarda, allarmata, e io sorrido, divertita: «Certo che esiste. Proprio non capisco perché molti bambini a dieci anni cambino idea.»
Gli orfani sospirano, felici, e urlano di gioia.
Mi unisco a loro come una bambina e mi riprendo il Natale, ancora una volta.
Una volta e per sempre, Buon Natale!Anna Luna Fiordaliso