1, Penna di corvo

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Sono praticamente in punta di piedi. Sento i polsi lacerarsi sotto la stretta ferrea delle manette agganciate alla sospensione che pende dal soffitto. Il fresco della stanza inveisce contro il mio corpo nudo, punteggiando la pelle di brividi.

Una lingua calda si trascina lungo la mia coscia, dal ginocchio all'inguine. Sento i peli rivoltarsi e una sensazione di bagnato sfiorare i testicoli. Ansimo, e lo sconosciuto si alza di fronte a me. Percepisco il suo fiato torrido sulla faccia.

«Sei bello, sai?» mi dice, pizzicandomi un labbro con i denti affilati. Strizzo le palpebre d'istinto, e la benda annodata intorno alla testa mi sfrega sugli zigomi. «Ti piace, non è vero? Ti piace lasciarti guardare in queste condizioni, sì? Dimmelo. Fammi ascoltare la tua voce, splendida creatura».

Mi piace? Oh, sì. Non dovrebbe, però mi piace, e da impazzire.

«Mh-mh» mi limito a mugolare come forma di asserzione.

«Fai il prezioso» sogghigna lo sconosciuto, afferrando il mio mento in un pugno. «Ti costringerò a urlare. A urlare fortissimo per me. Ti sentiranno in tutto il locale, piccolo impertinente».

Un rimestamento d'aria mi fa capire che si è abbassato. Forse è in ginocchio. Smetto di formulare ipotesi quando una guaina viscida scivola sulla mia erezione spoglia. L'ha presa in bocca.

Gemo, dapprima con voce flebile, e poi mi lascio andare. Grido, proprio come vuole lui. Mi dimeno, infliggendomi stilettate ai polsi che scorrono verso le terminazioni nervose di braccia e spalle, e il mio grido diventa l'emblema del mio piacere e della mia sofferenza, senza distinzione.

Sto per raggiungere l'orgasmo tra le guance del mio misterioso partner. Oscillo avanti e indietro il bacino, tenendomi in equilibrio sulle punte, quasi per miracolo.

E all'ultimo istante, odo uno scatto. Un cigolio, lo scalpiccio di una marcia animalesca.

Lo sconosciuto si ritrae, lasciandomi insoddisfatto e all'oscuro di quanto stia accadendo. I miei timpani parano le sue strilla e un tremore selvaggio si impossessa di me.

Un rumore assordante fa vibrare le mura. Cosa è stato? Uno scoppio, un boato... uno sparo?

Intanto che mi scervello per cercare una risposta distante mille miglia da me, avverto una presenza schermare la mia sagoma disarmata e infreddolita.

Un silenzio angosciante mi invade come il cono scatenato di un tornado.

Per un attimo sembra sia tutto qui. Non succede nulla.

Poi sento quella voce: «Dì le tue ultime parole, figlio di puttana».

Ma io non dico niente.

E di nuovo quel rumore – la schioppettata, lo sparo – mette a tacere ogni cosa.

Compreso me.

Mi sveglio. Sono cosciente, ma le palpebre sembrano incollate. Origlio il vociare che mantiene attiva la mia attenzione: «Era un folle! Un pazzo maniaco! Aveva con sé una Revolver Ruger calibro 22. Otto morti, sedici feriti che arrancano in condizioni gravissime. La proprietaria del Club 369, una certa Leila, è ricoverata in terapia intensiva».

Non riconosco la voce, ma dal timbro fine e squillante deduco si tratti di una donna.

Sprofondo ancora una volta nel buio.

Riapro gli occhi, percosso da due mani piccole ma vigorose. Stento a mettere a fuoco l'immagine. Lineamenti delicati, forma del viso ovale, zigomi pronunciati. Occhi blu.

«Mi senti?» chiede, continuando a scuotermi. «Riesci a sentirmi?»

Annuisco. Vorrei tanto parlare, ma mi risulta impossibile. Mi manca il fiato.

«Resta con me» mi implora quello che suppongo sia un infermiere, oppure un dottore. Bellissimo, ora che lo guardo così da vicino. Una frangetta biondo scuro copre la fronte ampia, uno strato curato di barba scalfisce la sua mandibola d'acciaio.

Lo osservo e intanto lui prosegue a pregarmi: «Resta qui, no, non dormire. No no, resta con me, occhi aperti. Non dormire. Non dormire».

Invece io dormo.

E i polmoni, di punto in bianco, si colmano di densa acqua salmastra, gelida e viscosa.

Sono in mare. Ma come ci sono finito qua dentro, nell'oceano?

Agito braccia e gambe per tenermi a galla, allora comincio a seguire il bagliore che filtra dalla superficie. Mi duole ogni singolo muscolo, vorrei vomitare, vorrei fermarmi e arrendermi, morire annegato. La spalla brucia fino a corrodermi le ossa.

Appena emergo, inalo tanto di quell'ossigeno da soffocare. Sbatto le ciglia zuppe di acqua e salsedine e ispeziono l'ambiente circostante, combattendo con l'irritazione che insieme alle gocce colanti slitta a infettarmi le iridi e le pupille. Un cielo cinereo, traboccante di nuvole cariche di pioggia, incombe su di me. Una nebbia fitta intride l'orizzonte a perdita d'occhio.

Scorgo qualcosa che somiglia vagamente a una roccia, dunque sguazzo nella pozza algida, squarciandone le minute onde crespe che mi assalgono, finché le mie ginocchia non urtano con un suolo melmoso e granuloso che mi punge la cute.

Mi alzo, affiorando dalle acque. Scopro di avere indosso una tunica bianca, resa semi-trasparente dall'impatto paludoso, che aderisce al mio corpo. Il tessuto leggero ridisegna i solchi delle mie costole. L'orlo della veste mi si arriccia sulle gambe snelle.

Cammino nell'acqua torbida, tagliandola col passo strascicato delle caviglie intorpidite dal freddo e dal dolore fisico dovuto al notevole sforzo del nuoto.

I miei piedi affondano nella sabbia fangosa della riva. La coltre di nebbia mi si appiccica ai capelli ricciuti e increspati dal sale, è arida e collosa e respirarla equivale a ingoiare polvere di gesso.

«C'è nessuno?» domando al deserto siberiano che mi ingloba. Avverto l'eco della mia voce dissolversi e ripiombare su di me con un'intonazione distorta, rallentata, macabra.

Ho paura. Mi accuccio sui talloni e subito casco a sedere, stringendomi in un abbraccio disperato; solo, solo da incutere terrore, solo in una landa desolata che odora di gas nervino e di foglie incenerite.

Una piuma nera dondola adagio nell'aria impura e mi si posa sulla fronte. La raccolgo, portandomela al volto. Una penna di corvo, all'apparenza, folta e nerissima, lo stelo rigido come un chiodo. Passo i polpastrelli sulle fronde vellutate e infine la restituisco al vento, rimanendo inerte a contemplarne lo svolazzo soave.

Un fruscio granelloso, ruvido, feconda le molecole di atmosfera. Ruoto il capo in ogni direzione, inseguendo la fonte remota dello stropiccio sempre più insistente, sempre più fragoroso, sempre più prossimo, vicino, vicino, vicinissimo a me.

E tra le volute di foschia d'alabastro compare a poco a poco un profilo in cui primeggiano soltanto due pigmenti: il nero e il bianco, la tenebra e la luce.

Incede fino a raggiungermi. I miei occhi verdi scansionano la figura eterea di un angelo funesto che mi si pianta davanti, i capelli biondo scuro lisciati all'indietro, le iridi blu fisse su di me, pantaloni di cuoio aderente che ridisegnano le cosce tornite, alti stivali dalle stringhe doppie e intricate cosparsi di sabbia fradicia, addome niveo cesellato da blocchi di carne turgida che mi inducono a immaginare cubi succulenti di cioccolato, schizzi di inchiostro tracciati sul petto florido, bicipiti di marmo e le grosse, imponenti ali di corvo che fanno capolino dalle scapole.

Bellissimo. Ipnotizzante.

Mi sorride.

«Piacere di vederti, Harry».

Harry's Inferno [Larry Stylinson]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora