«Dunque, riprendiamo». Lucifero tira indietro la testa e la scuote, passandosi le dita tra i capelli. Ha le unghie dipinte di nero, lo noto soltanto adesso. Emana un intenso profumo di crisantemi e di legno tostato. «Stavamo ripercorrendo le tappe delle tue aberrazioni più clamorose».
Io sono ancora frastornato, paralizzato. Ma pesco la prodezza di affermare: «Sono una brava persona».
Il corvo umano mi umilia divulgando una risata malvagia, ridondante, tremendamente sardonica. «Oh, dolcezza, non si direbbe» obietta.
«Mi sono abbuffato con una torta che non era di mia proprietà e ho perso il controllo con mia sorella. E allora? Ero un bambino, per l'amor del cielo! Non ho mica ammazzato qualcuno!»
Lui torce la bocca al sintetizzarsi della mia esclamazione. «Non stai tenendo conto della vecchietta, immagino».
«Quale vecchietta?» domando, trasalendo.
«Lo sai» sussurra, sporgendosi su di me. I nostri volti, divisi da un debole soffio di vento polare. E così, scrutando i suoi occhi ora limpidi, quasi vitrei, mi ritrovo immerso in una reminiscenza che credevo di aver cancellato dalla memoria, o almeno, lo avevo sperato.
Ero a bordo di uno scooter ereditato di seconda mano da mia sorella Gemma. Dietro di me, il mio migliore amico, Niall. Sfrecciavamo sul mezzo di bassa cilindrata, pericolosamente sgangherato, avvolti in un compatto drappo di nebbia, uguale a quella che aleggiava nella valle degli inferi. Le strade erano desolate; nessuno avrebbe messo piede fuori casa con quel tempaccio, pensavo. Ridevo a crepapelle per alcun motivo valido, come il quindicenne frivolo che ero, e Niall non era da meno. Nell'imboccare una curva, mi accostai un po' troppo al marciapiede. Urtai contro la banchina, ed entrambi ruzzolammo in terra, protetti – per fortuna – dalle ginocchiere, dalle gomitiere e dai caschi allacciati sotto al mento. Rotolammo sull'asfalto irto per la bellezza di quattro o cinque metri ciascuno. Ci rialzammo da terra, ognuno sfregiato da graffi profondi e già sanguinanti. «Stai bene?» gli chiesi. Lui mi disse che, sì, stava bene, tutto sommato, per quanto bene potesse stare chi aveva subito un incidente, com'era appena capitato a noi. «Dovremmo andare in ospedale» suggerii, analizzando le lesioni aperte sul palmo. Niall annuì. Quando zoppicammo verso il motorino, trovammo un'anziana signora coricata sulla strada, pancia capovolta, palpebre serrate, bocca schiusa. La sua tempia stillava sangue. Pozze rosse imbrattavano il catrame solidificato dilatandosi a macchia d'olio, esalando un fetore di rancido che dava il voltastomaco. Era stata coinvolta nell'impatto. Non si capiva se fosse morta oppure no, ma non scovammo l'ardire di scoprirlo. Raccogliemmo lo scooter ammaccato e montammo la sella, uno appresso all'altro. Terrorizzati dall'ipotesi di aver strappato un essere vivente alla vita, ci defilammo come codardi.
Perché sì, scegliemmo la viltà. La vigliaccheria. La grettezza.
«L'avarizia» apostrofa Lucifero, gli scarponi di cuoio lucente a oscillare nell'oceano che si squaglia in meringhe di spuma putrida. «Uno scandalo davvero indecente, non trovi?»
Resto zitto a patire la stoccata perfida ma, mio malgrado, oggettiva. Accorcio il collo tra le spalle per la vergogna. «Non credere che non sia pentito» guaisco. «E' un tarlo che mi perseguita da anni. Mi ero convinto di averlo scordato, sepolto sotto tonnellate di terra omertosa, però...». Prendo un respiro e mordicchio il labbro inferiore. «Ero un povero ragazzetto imbecille inebetito di adrenalina...»
«Non ti sto giudicando, sia chiaro» sostiene il corvo umano. «E poi cosa ti è successo, mio caro?»
«Cosa mi è successo?» lo cito, perplesso.
«Dopo il tragico episodio della vecchietta. Qualcosa dentro di te è mutato, non è così?». Capta il mio sguardo elusivo, perciò mi pressa: «Esigo la più autentica onestà da te. Mentirmi non servirebbe a nulla».
Non avendo facoltà di contrastarlo, lo confesso: «Sì. Qualcosa è cambiato».
«Cosa, di preciso?»
Intreccio le dita, torcendole da un lato all'altro. Una fitta mi azzanna il dorso e l'avambraccio. «Ritengo... di aver smarrito la fiducia in me stesso».
«Solo in te stesso?»
«Nella vita, in generale».
Mi scocca un'occhiata di sbieco che, in silenzio, mi sollecita: "Sii più specifico".
«Penso che, a un certo punto, la mia fede in Dio e nella religione cristiana abbia affrontato una complessa metamorfosi. Mi sono presentato a messa ogni settimana, al catechismo, finché è stato necessario; ho prestato soccorso ai bisognosi e offerto servizio di volontariato, ma non...»
«Non era ciò che desideravi davvero» interviene lui. «Sai come definiamo questa deviazione, da queste parti?»
«Apatia?» domando, ormai arreso all'ineluttabilità della sorte.
«Accidia» mi corregge, denotando un certo sadismo. «Hai percepito un vuoto interiore, hai permesso che si costruisse una dimora dentro di te. Gli hai concesso di restare, di mettere radici nelle tue viscere, l'hai accudito, lo hai nutrito, messo all'ingrasso, e ora è parte di te. Te lo si legge in faccia, Harry, che per te non sortisce alcuna differenza: vivere o morire. È un'anomalia che non tollerano, di solito, lassù» mi mette in guardia, segnalando il cielo con un dito.
Nell'assorbire il significato intrinseco delle sue parole, un'intuizione mi sfolgora la mente, e inizio a sentirmi terribilmente ingenuo per non esser giunto prima a quella conclusione.
«Se mi trovo qui è perché sono morto?» avanzo, cauto.
«Tu cosa pensi?» rilancia Lucifero.
«Non lo so». È una sensazione subdola e mostruosa: non rilevo il peso della mia massa corporea che grava sulle strisce della grande altalena ciondolante. Però distinguo il battito del mio cuore, è nitido e pulsante, mi spacca lo sterno, mi schiaccia il cervello, rimbalza tra i timpani.
«Non mi risulta che ai morti venga regalato un palpito cardiaco tanto effervescente, ne convieni?» mi interpella, quasi riesca a udire i miei pensieri. E con ogni probabilità ne è capace sul serio.
«No, infatti» concordo. «In tal caso, perché mi ritrovo qui? Cosa ho combinato per cacciarmi in questa selva orripilante?»
Il corvo umano piega le labbra all'insù e mi dedica un sorriso. Io lo osservo estasiato. La bocca è rosa fluorescente come due tratti di evidenziatore, deliziosamente sottile. Gli zigomi si pompano, riducendo gli occhi a due spiragli poco più elastici di una crepa.
«Hai dimenticato proprio tutto, Harry?»
Faccio per replicare, quando un dolore ustionante nei pressi della clavicola mi sprona a grugnire un lamento. Il mio sguardo curioso e impaurito piomba lì, lesto, nell'area circoscritta all'afflizione fisica.
Una chiazza rossa compromette la mia veste pallida. Ha la circonferenza di una noce, ma pare determinata a conquistare volume.
«Ci arriveremo, non avere fretta» mi bisbiglia all'orecchio, sfiorandomi il lobo con le labbra soffici, scottanti. «Ora raccontami di Liam».
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Harry's Inferno [Larry Stylinson]
FanfictionViaggio nell'inconscio di un peccatore qualunque che scopre di essere semplicemente umano.