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Alberto era reduce da una notte che come ricordo gli aveva ceduto soltanto un mal di testa martellante e qualche rimasuglio di allucinazioni stroboscopiche.
Aveva un occhio stretto, ridotto ad una fessura, l'altro chiuso, il viso arricciato in un'espressione infastidita, non si sentiva i polpacci, le cosce brulicavano.
Strofinò il viso tra le mani confuse, si stropicciò le labbra, sentendo fastidio alla bocca per un'eccessiva salivazione, poi vomitò a terra.
Si accasciò su una fila di cubi di cemento di decorazione, circondati da cespugli potati con minuzia in sfere, che sgualcì e rovinò, spezzando dei rami col suo stesso peso.
Si infilò il telefono dentro i pantaloni, nell'elastico delle mutande, "per sicurezza".
Dopodiché nessun ricordo.
Si svegliò alle sette del mattino.
Il sole era già sorto e riscaldava l'asfalto, la sua bocca sapeva di marcio, i suoi occhi erano incollati tra le palpebre, le ciglia incrostate di sonno, e tutta la schiena bruciava dal dolore.

Dopo avere fatto una doccia ed avere mangiato, si era sdraiato sul divano e fissava il soffitto in cerca di chissà quale epifania.
Il suo volto era ancora pallido, le labbra violacee.
Si era fatto pomeriggio, poi sera, e la luce del sole scendeva dai vetri della finestra timido e furtivo, tingendo di un arancio intenso le pareti dell'appartamento e la pelle di Alberto, che rimaneva passivo e fissava con uno sguardo laconico una certa venatura sul legno del telaio della finestra.
Ordinò da asporto, perché nel frigo trovò soltanto un barattolo di vetro di pomodori secchi disgustosamente unto, un uovo dal guscio scurissimo ed uno spicchio di aglio rinsecchito avvolto in un tovagliolo.
Mentre mangiava l'ultima fetta di pizza, si era fatta già mezzanotte e quaranta.
Era seduto a terra, mettendo in discussione il suo essere recidivo.
Ogni singola volta, quelle giornate passate nel vuoto lo facevano sentire appiccicoso e colpevole, un viscido parassita senza alcun senso, qualsiasi cosa questo volesse dire. Era una questione sentimentale, non c'era molta interpretazione, solo un grande sconforto alla bocca dell'anima.
I suoi pensieri correvano, e si facevano apocalittici: poteva ben morire da un secondo all'altro.
Che senso aveva continuare con quei ritmi? Non si era affatto divertito quella sera, né a bere, né a ballare, tantomeno a stare male.
A volte la mente fa di tutto per ingoiare una mina innescata.

Alberto si era sentito di avere ingoiato una mina innescata quando aveva conosciuto Diana.
Era successo la mattina prima, ma gli impegni del pomeriggio, della sera e della notte lo distrassero.
Afferrò il cellulare, nonostante fosse ormai l'una e quindici, e lei stesse con grosse probabilità dormendo.
Il telefono squillava, Alberto si mordeva l'interno del labbro inferiore e delle guance, lo stomaco si annodava in una lunga corda di lenzuola, pronto a saltare fuori dalla finestra per scappare da quel corpo irresponsabile ed impulsivo.
— Pronto?
Il cuore arrivò al mento.
— Che fai sveglia?
— Che razza di domande fai? È tuo uso chiamare le persone di notte?
— Se questo potesse incentivarti ad usarmi come oggetto di studio antropologico su caso singolo, potrei rispondere di sì.
— Sei completamente fuori di testa. Stavo leggendo, per scrivere quell'articolo di cui ti parlavo ieri.
— Ah sì, sulla musica russa
— Esatto.
— Sei proprio un personaggio, che leggi di notte per gli articoli. Sei a lume di candela?
— Non ti sopporto più. Perché mi hai chiamata?
— Domani mattina, beh, questa mattina, in realtà... ad un orario decente, sia chiaro, vorresti fare colazione con me?
— Va bene.
— Ma non hai detto che non mi sopportavi più?
— Sono masochista, mi piace prosciugare la mia forza vitale. Non fare battute su temi erotici. Squallida e già masticata.
— Sei proprio pesante.
— Allora vacci da solo a colazione.
— Dai, scherzavo. Domani ci vediamo.

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