Capitolo 29

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Rylee

Il turno lavorativo, tra le mura del Kenmore, cominciò senza particolari intralci. La tavola calda era immersa nel silenzio, accompagnato solo dallo sfrigolio delle piastre ustionanti della cucina, e all'esterno la pioggia aveva smesso di scrosciare.

Sorprendentemente, ero riuscita ad arrivare al lavoro con puntualità. Il tragitto dall'appartamento di Blake al locale mi era parso eterno, peggiorato dall'umidità e dal calore innalzatosi dall'asfalto portando con sé gli sciami di zanzare più fastidiosi, ma avevo avuto il tempo di chiarirmi le idee dopo ciò che era successo tra noi.

Non mi sarei mai aspettata di arrivare così presto a quel punto, con lui. A dire la verità, forse nemmeno credevo di poterlo raggiungere. Avevo concepito la nostra situazione come una frequentazione nata da un'attrazione reciproca, ma quel pomeriggio era stato in grado di farmi capire che il nostro legame valeva molto di più per entrambi. Era il modo in cui le nostre vicissitudini si somigliavano, a unirci, ed ero sicura che tra noi non avrebbe potuto instaurarsi connessione più intensa.

La mia mente era tuttavia annebbiata da un altro pensiero. Ci avevo guadagnato un'emicrania, trastullandomi con la consapevolezza di avere una pistola incastrata tra lo stomaco e la gonna e, più ci riflettevo su, più il mio mal di testa peggiorava. Ero divorata dal bisogno di fumare per rilassarmi, ma non potevo uscire dal locale nel bel mezzo del turno. Sconfitta, quindi, mi dovetti accontentare di ciò che più era alla mia portata: compii pochi passi per raggiungere il frigorifero delle bibite, aprii lo sportello ed estrassi una birra, di cui feci saltare il tappo con il cavatappi infilato nella tasca della gonnellina.

Quando l'anello di vetro gelido aderì alle mie labbra e il sapore amarognolo del liquido alcolico mi inondò la bocca, fui travolta da un inaspettato senso di piacere. Laddove mi era impossibile sfogarmi su una sigaretta, la birra diventava l'arma migliore contro lo stress.

Socchiusi le palpebre per godermi il suo effetto disinibente per un'altra manciata di secondi, finché il campanello non tintinnò quando la porta d'ingresso venne aperta. A infilarla fu il signor Rogers, come quasi ogni sera, che mi salutò con un sorriso tirato e un cenno della mano da me ricambiato.

Quell'uomo, con il passare dei giorni, aveva un'espressione sempre più triste, che cozzava terribilmente con i colori sgargianti della tavola calda in cui gustava le sue cene. Più passavano le settimane e più i pensieri onnipresenti lo svilivano. Erano tante le volte in cui mi chiedevo quante cose sarebbero state diverse, se solo sua figlia non se ne fosse andata troppo presto e sua moglie non l'avesse abbandonato.

Mi dispiaceva vederlo in quello stato, mascherato, però, da un cordiale sorriso. Così, smossa da un impeto compassionevole, adagiai la birra mezza vuota sul bancone e mi appoggiai a esso, reggendomi sui gomiti.

«Signor Rogers», gli sorrisi mentre era intento a sedersi a uno dei tavoli. «Stasera sarà solo lei a farmi compagnia» ridacchiai, e aleggiai un dito a mezz'aria, indicando la vuotezza del ristorante.

«Piccola R, sono una costante della tua vita», e mi restituì la risata. Con i polpastrelli, poi, sfiorò l'accenno di barba che gli campeggiava sul volto e si sfregò il viso scavato dalle rughe. «Il tuo amico è disposto a sfamarmi anche stasera?» mi domandò, riferendosi a Lewis.

«Lewis!» lo chiamai, senza compiere lo sforzo di recarmi in cucina. «Prepara un cheeseburger per il signor Rogers!»

«Va bene», si limitò ad assentire.

Il silenzio calò di nuovo nel locale. Fuori regnava già l'oscurità, frutto del cielo plumbeo, e le forti luci al neon del Kenmore erano confortanti. Quel piccolo ristorante era come un rifugio famigliare, con le decorazioni variopinte, il pavimento a scacchiera e la musica che riverberava in sottofondo.

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