10. Involucro

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10

Involucro

Le lodi mi rendono umile, ma quando mi insultano so di aver toccato le stelle.

(Oscar Wilde)


Dimenticai il mantello a Moorfield.

Scesi la collina con passo veloce, strinsi le braccia al petto, schiacciando contro le mie ossa il blocco da disegno e le matite, e lasciai che i miei piedi si muovessero guidati dal mio istinto. Mossi ogni passo con fare meccanico, chiudendo gli occhi quando certi pensieri mi punzecchiarono gli angoli della testa. Bellezza. Bellezza. Bellezza.

La notizia della festa fu accantonata in un angolo e il dialogo avvenuto in biblioteca echeggiò nella mia mente senza che riuscissi a controllarlo.

Mi domandai fin troppe volte da quando il mio aspetto fosse oggetto di conversazione. Di discussione. Era lui, Clark, il demone dei sogni, il Signor gazza, quello che ostentava la sua apparenza come un trofeo, non io. Non si parlava mai del mio aspetto. Io non ne parlavo mai. Papà non ne parlava mai. Non se ne doveva parlare. Non era necessario. Era la signora Grace l'unica che si sforzasse nel dirmi di trovarmi graziosa.

Mi domandai allora il perché fossi stata colpita proprio in quella dimensione su cui non mi ero mai esposta. Era sbagliato pensarci. Non dovevo dare peso a certe parole. Ma lo stavo facendo, dimostrando a me stessa come la meccanica che mi regolasse fosse difettata. Non solo mi spingeva a prendere parte a conversazioni di cui sapevo gli effetti collaterali, ma si fissava anche su piccolezze. Gli ingranaggi che mi regolavano non erano precisi e se avessi potuto staccarli dalla mia testa li avrei limati a dovere. Ero una sciocca. Così sciocca da esagerare ogni cosa: frasi, scene, sguardi, percezioni.

Non ero mai stata una ragazza vanitosa. Non avevo mai creduto di esserlo, almeno. Non mi era mai importato del mio riflesso. Mi limitavo a guardarmi, a non pormi mai troppe domande che mi permettessero di interrogarmi se crescendo avessi preso almeno un po' della bellezza di mia madre. Non mi importava. Perché avrebbe dovuto? A cosa mi sarebbe servito il mio aspetto? Ero cresciuta sentendomi dire da Madame Caitriona che non fossi una bellezza, sentendomi dare della figlia della strega dall'aspetto bizzarro: quella ciocca bianca, strana, quell'occhio in parte chiaro, strano, quella pelle pallida e grigiastra e quel corpo che era rimasto ossuto e che con il tempo, con l'indosso del corsetto, si era fatto ancora più duro. La vita si era ristretta, i fianchi acerbi si erano fatti più sporgenti e il mio viso si era fatto più smunto, sorretto da un collo lungo, di cigno, come lo aveva definito una volta la dolce Annie.

Eppure, nonostante tutte queste consapevolezze, mi sentivo ferita. Ferita nell'orgoglio, quello che può possedere anche una ragazza modesta e brutta, e mortificata nella vanità, quella che in quel momento si fece sentire con impeto.

Non avrei mai potuto interpretare Giulietta, né qualsiasi altro personaggio femminile descritto in termine di bellezza dirompente perché non ne ero in possesso. Avevo lunghe mani che sapevano costruire giocattoli di legno, orecchie dall'udito raffinato, una lingua che era in grado di dar vita a racconti di fantasia e che con il tempo aveva imparato a scandire ogni lettera inceppandosi di rado, ma ero priva di quella qualità, considerata tale, che per molti era il perfetto bigliettino da visita perché tante porte fossero aperte con facilità. Per la prima volta, a diciassette anni, dovetti ricordare a me stessa che andassi bene così com'ero. Che non dovessi sentirmi mortificata da certe parole, perché l'assenza di un aspetto di un certo tipo non mi identificava. Non ero le mie labbra sempre screpolate anche nella stagione più calda, non ero la mia pelle, non ero le mie differenze. Ero tutto questo. E molto di più.

La ballata delle faleneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora