Aprì gli occhi nello scintillio di una luna d'argento, un alone pallido come neve a ferire l'oscurità della notte di un'aura chiara e ovattata, quasi impalpabile. Abbagliato, scostò il viso, morbidi ciuffi gli ricaddero sulla fronte in ciocche color brina, prima che un refolo di vento giungesse da oltre il rettangolo di una finestra spalancata per sussurrargli di strade sconosciute, rumori ignoti e oscurità inesplorate.

Non era a casa. Non più, ormai.

«Dean, tutto bene?» lo richiamò una voce poco distante.

Il tono vigile e contratto lo riscosse, facendogli ricordare ciò che per un solo attimo aveva sperato di poter dimenticare.

La notte, la fuga, la scelta; l'inarrestabile precipitare degli eventi fino al fatale epilogo di loro due soli in un mare di incognite e possibilità.

«Dean...» Più morbido, comprensivo, Ethan lo chiamò di nuovo, parandosi fra lui e l'astro argentato come un guardiano nero, altissimo e longilineo nel profilo della notte. «Tutto bene?»

Dean deglutì a vuoto.

Prima no. Poi sì. Ora non ne era più tanto sicuro.

Passare oltre lo specchio era stato un po' come riprovare la Telepatia senza più alcuna Lady Electra o Anderson a garantire che nessuno si potesse fare male. E da lì proseguire dritti fino a raggiungere il sottile velo che separava la realtà dalla fantasia, per andare ancora oltre.

E ora che si trovava al di là, nella pallida atmosfera notturna, con il freddo che gli pungeva le dita con baci di gelo, Dean non fu più così sicuro di aver davvero passato la barricata.

«Sto bene» disse tuttavia. «Dove siamo?»

«A Emerald Street» gli rispose Ethan. «Al sicuro.»

Rabbrividì. «Notevole, Blake. Ma qualche dettaglio in più non mi spiacerebbe.»

«Fingi che sia casa mia.»

E questo dovrebbe rincuorarmi?

Diede una rapida occhiata tutt'intorno scorgendo oltre il parapetto comignoli e tetti più lontani.

«Chissà perché ti facevo più tipo da villa in campagna» soggiunse, rievocando con falsa noncuranza una delle tante indiscrezioni che con fatica aveva racimolato in quegli anni di pedinamento. Un'informazione che sapeva di perdite e dolore, come quelle lasciate nella famiglia Blake dopo l'omicidio del padre.

Come suo solito, Ethan liquidò l'insinuazione con una scrollata di spalle.

«In effetti, è lì che ho intenzione di portarti una volta usciti di qui» rispose beffardo. «Il caos di Londra mi provoca sempre una certa claustrofobia.»

«Si chiama Normopatia, Blake» sibilò Dean con una smorfia. «E se fossi in te non me ne preoccuperei affatto: non credo riuscirai mai anche solo ad apparire normale, figuriamoci esserlo per davvero.»

La risata di Ethan lo fece sussultare, aveva i nervi tanto tesi da sentirli quasi vibrare all'unisono mentre tentava un goffo passo indietro.

«Quindi ti piace?»

Schioccò la lingua sul palato. «Sono cresciuto in un castello, Blake. Come diavolo pensi possa piacermi questa sottospecie di topaia?»

«Beh, io la trovo più che accettabile.»

«Buon per te.» Fece una pausa e gettò una seconda occhiata perplessa tutt'attorno. «Per me non vale neanche il tempo che hai sprecato a portarci qui.»

Dozzinale tanto quanto l'idea di portarli lì una volta sfuggiti ai pericoli della St Patrick, la "reggia" di Ethan pareva a tutti gli effetti uno scantinato vestito a festa. Carta da parati anteguerra e mobili in noce anticato riempivano la periferia dello sguardo come le comparse di un quadro a buon mercato, perfetto per arredare salottini minuscoli in ancor più appartati localini di periferia. Senza contare i soprammobili in porcellana.

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