The game has ended

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«Non ti muovere. Tieni gli occhi fissi su di me. Fallo, per favore».

Manuel fa due passi indietro per tornare alla sua postazione precedente, gli occhi incollati sulla figura di Simone ancora sopra al cornicione del palazzo, la mano che regge il cellulare che ha iniziato a tremare.

«Mi dispiace. Questa chiamata è... è il mio biglietto d'addio. Si fa così, no?» tira su col naso.

«Che stai a di' Simò–».

«Addio, Manuel» mormora Simone.

Poi per Manuel sembra andare tutto a rallentatore e alla velocità della luce allo stesso tempo: vede Simone abbassare il suo cellulare e lasciarlo ricadere per terra, sul cemento del tetto; lo vede guardare di sotto; lo vede allargare le braccia, i palmi delle mani rivolti verso il cielo.

Lo vede saltare giù.

Non lo controlla l'urlo che gli abbandona le corde vocali, lo squarcia da dentro per la ferocia che impiega nel fuoruscire dal suo corpo per articolare il nome di Simone, come se l'onda d'urto provocata da quel suono possa sfidare la gravità e riportare l'altro sul tetto, possibilmente con i piedi ben piantati al suolo, possibilmente ben lontano dal cornicione.

Anche il suo di cellulare ricade per terra, rimbalza una volta e poi rimane inerme, e Manuel ancora con gli occhi puntati sulla figura che crolla inarrestata non se ne cura e scatta in avanti; deve correre, deve arrivare prima che Simone tocchi terra, prima che alle sue orecchie giunga un rumore che mai potrà dimenticare; ma preso com'è dal raggiungere il suo obiettivo non si accorge che in quella strada non è da solo e si scontra con una bici che gli taglia la strada, cadendo rovinosamente a terra.

L'impatto col terreno gli fa perdere l'ultimo briciolo di fiato che aveva nei polmoni, le mani istintivamente portate avanti non impediscono al suo viso di scontrarsi con l'asfalto. Si rialza, strizza gli occhi cercando di mettere a fuoco ciò che ha davanti; crede di star sanguinando da un sopracciglio, non ne è sicuro ma non ha tempo per accettarsene. Barcolla sulle gambe deboli mentre rimanda giù un conato di vomito.

Fa il giro di quel furgone nero che gli occupa la visuale del marciapiede ancora in uno stato semi-confusionale, vede un gruppo di persone attorno a qualcosa che non riesce a identificare e si affretta ad avvicinarsi, cerca di farsi largo spingendo spalle e pestando piedi fino a quando non si ritrova davanti ciò che mai avrebbe voluto vedere.

E allora il vomito si fa così prepotente che è costretto a portarsi una mano alla bocca per coprirla, deve aggrapparsi con la mano libera alla giacca di uno sconosciuto al suo fianco per non crollare in ginocchio sulla pietra bagnata; vorrebbe chiudere gli occhi per fingere di poter dimenticare di aver visto una scena simile, ma quelli rimangono spalancati, immobili, fissi sul corpo di Simone riverso per terra.

Le gambe alla fine cedono e Manuel si ritrova dapprima in ginocchio, e in seguito seduto scomposto sul marciapiede, l'umidità che gli lambisce i pantaloni e glieli inzuppa. Ma Manuel non sente il freddo, non sente le voci concitate che lo circondano e non sente nemmeno il battito del cuore di Simone quando si allunga quel che basta per afferrargli un polso niveo.

Manuel non sente niente, né fuori, né dentro.

Delle braccia lo tirano su e lo allontanano da Simone quel che basta per permettere a dei paramedici di sollevare il suo corpo e adagiarlo su una barella, e Manuel si rende conto solo in quel momento che parte del brusio che percepiva proviene da sé stesso, che la litania di nonono e SimoneSimoneSimone ha continuato a lasciargli le labbra senza che ne avesse il controllo.

E quando la barella sparisce dietro le porte scorrevoli del pronto soccorso e le mani che lo reggevano in piedi si allontanano dalle sue braccia, Manuel non sente più nemmeno i suoi stessi lamenti.

Avverte solo il tanfo metallico del sangue di Simone che macchia il marciapiede, e che sta già venendo lavato via dal cielo che si è aperto a piangere con lui.









Manuel non sa da quanto tempo è lì.
Il tempo da circa una settimana sembra aver assunto per davvero quell'accezione di relatività secondo cui ogni individuo ne ha una percezione propria: per il resto del mondo è andato avanti, non ha subito grosse modifiche.

Per il mondo di Manuel, invece, il tempo ha smesso di esistere una settimana prima. I secondi hanno smesso di scorrere, i minuti si sono arrestati all'improvviso, le ore si sono dilatate impossibilmente fino a confondersi tra loro.
Se il sole non sorgesse e tramontasse sistematicamente, anche i giorni cesserebbero di avere significato.

È di nuovo – o ancora, non lo sa in realtà – davanti a quella lapide di marmo nero, un nome e un cognome che continuando a fissarli e a leggerli e a sussurrarli sono diventate parole estranee, sfuggenti.

Tiene le mani dentro alle tasche dei pantaloni scuri che indossa, chiuse in due pugni che stringe con cadenza irregolare per cercare di alleviare il leggero tremolio che sembra non volerlo abbandonare.

Schiude le labbra per parlare ma si ritrova senza fiato, perciò si schiarisce la gola una volta, poi di nuovo.

«'Na volta–» la voce gli esce roca, suona inutilizzata, dimenticata. «'Na volta m'hai detto che non sei– che non eri, 'n eroe. Ma a me non me n'è mai fregato niente perché– perché sei la persona migliore che conosco, Simò» la voce trema sull'ultima sillaba, «e nessuno me convincerà der contrario».

Compie un passo incerto in avanti seguito subito dopo da un altro mentre tira fuori le mani dal loro rifugio. Si piega sulle ginocchia mantenendosi in equilibrio sulle punte dei piedi e porta la mano destra a poggiarsi sul lato della lapide, il pollice a sfiorare la E del nome di Simone. «Nemmeno tu» sussurra.

Il pizzicore che avverte agli angoli degli occhi lo porta a tirarsi su e a indietreggiare fino a quando non ha di nuovo la visuale sulla superficie di marmo e ciò che la circonda: qualche mazzo di fiori di campo, quello stupido cappello.
Deve deglutire per contrastare il magone che gli risale la gola e non lasciarsi andare definitivamente al pianto – lo ha già fatto abbondantemente in quei giorni.

Rimane lì qualche altro secondo prima di voltarsi e compiere i passi che lo porteranno verso l'uscita del cimitero, ma si ferma e torna indietro riprendendo la posizione accovacciata precedente.

«Ti prego, solo... devi fa' solo un'ultima cosa, pe' me» pronuncia poggiando un palmo sopra a quelle due uniche parole incise. «Non... non essere–» la voce si spezza, «non essere morto».

Quell'ultima parola è come una diga che va in frantumi e semina il devasto attorno a Manuel che si ritrova a crollare sulle ginocchia, la fronte a contatto con la lastra gelida, l'unica cosa di Simone ad essere rimasta al mondo.

Devasto che si manifesta all'esterno tramite due sole lacrime che gli rigano le guance e vanno ad unirsi alla terra umida. Manuel tira su col naso, si rialza in fretta e rimette le mani in tasca. Si incammina a testa bassa verso l'uscita e verso la sua moto pensando solamente al fatto che si è sbagliato.

Quella lapide scura non è l'unica cosa che è rimasta di Simone.

È rimasto anche lui.

Ma non sa che farsene di sé stesso, adesso che non c'è più Simone al suo fianco.

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