Prologo

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Autunno di un anno prima

Era una notte fredda di fine autunno, il vento ululava nell'oscurità, insinuandosi tra gli spiragli delle finestre. La casa era isolata dal resto delle altre, nel Vernon. Zia Caren era arrivata protetta dal manto della notte, qualche minuto dopo le due del mattino; aveva superato le ultime case, attraversò la strada sterrata in cui parcheggiavano quelli che volevano andare a fare due passi e raggiunto la vasta distesa del parco. La macchina le sobbalzava e sbandava sulla via sconnessa, mentre i fari illuminavano i tronchi degli alberi ad intermittenza, fino a quando aveva imboccato un sentiero riparato da entrambi i lati da una foresta fitta che la portava dritto in quella casa, dove io e il nonno ci trovavamo. Il buio era denso, l'unica luce era quella della luna, che s'intrufolava fra le chiome degli alberi. Il motore ruggiva, le sospensioni fischiavano mentre la vettura ondeggiava di qua e di là, si era fermata proprio davanti il portico mentre le ruote stridevano sul pietrisco per via della frenata brusca, riuscì a spegnere l'auto, dimenticandosi i fari accesi, corse su per i gradini ma non ebbe il tempo di bussare che le avevo già aperto la porta. Il suo viso era una maschera di preoccupazione, le occhiaie facevano sembrare i suoi occhi più infossati, i capelli erano scompigliati dal vento e le mani le tremavano <<Dov'è?>> disse rapidamente e senza parlare la condussi nella camera del nonno, dove proprio lui giaceva sul letto, aveva gli occhi socchiusi e il suo viso era scarno, era una smorfia di dolore, mi chiedevo dov'era finito quel bel viso che un tempo lo caratterizzava, con la mascella forte, gli occhi azzurri severi e furbi, le guance colorate sempre di rosso e la barba ben rasata che lo faceva sembrare sempre un bel giovanotto, ma adesso, di quel bel viso, rimaneva ben poco, lo avevano dimesso dall'ospedale solo quarantotto ore prima perché ormai non c'era più nulla da fare, aveva insistito perché lo portassi nella vecchia casa del Vernon, perché voleva che dopo la sua morte, gli unici ricordi che avessi avuto di lui nella casa a New York fossero stati di momenti felici, sapeva quanto odiassi la casa nel Vernon e sapeva che senza di lui non ci sarei mai andata. Mi si strinse il cuore e gli occhi iniziarono a bruciarmi mentre mi si riempivano nuovamente di lacrime. Il fuoco nel camino ardeva ma non bastava a riscaldare il mio corpo tremante, no, perché quelli non erano brividi di freddo, venivano dal profondo. <<Papà>> la voce di zia Caren era rotta dal pianto, si avvicinò al suo capezzale e gli prese la mano e la strinse tra le sue, mentre lui si limitava a sbattere debolmente le palpebre, ormai era troppo debole anche solo per pensare di pronunciare una parola. Gli occhi di mia zia si posarono su di me, il dolore che provavamo era straziante, perché sapevamo che non potevamo fare nulla per lui e questo era orribile, non era giusto, se lui se ne fosse andato, non rimanevamo altro che io e lei.

'La morte è un'usanza che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare' una frase di Jeorge Louis Borges, mi tornò alla mente, ho sempre creduto che la morte non fosse una cosa così orribile, tutto sommato, tutto ciò che è incontrollabile è naturale e, la morte lo è, l'ho sempre vista come quella parte di scienza, quella che esclude l'anima e, proprio a quest'ultima non ho mai creduto, perché il nostro corpo è formato da un insieme di molecole, cellule tenute insieme da legami chimici. Quando nasciamo, la vita inizia a scorrere nel corpo, proprio grazie a questi meccanismi, mentre la morte avviene quando quest'ultimi smettono di funzionare, ma non è una vera e propria morte, perché ciò che compone il corpo chimicamente e scientificamente parlando, si trasformerà in altro. Con il tempo verrà a formare altri microrganismi, organismi e, chi lo sa, magari parte di un altro corpo. Siamo fatti di elementi chimici. Non credo in una morte assoluta, per me non esiste. Nella sua trasformazione, tutto si rigenera. Ma allora in quel momento mi sentivo vuota? Come se quello a cui ho sempre creduto non fossero altro che teorie tremendamente sbagliate? Come se arrivati a quel punto, tutto finisse per sempre, come se morendo non ci fosse più nulla, come se mio nonno stesse per scomparire per sempre. Nessuna scienza che continuasse a farlo esistere. Nessuna religione che lo salvasse dall'inferno.

Era questo il dolore che portava la gente a credere in qualcosa di meglio dopo la morte, ad un aldilà e ad un paradiso e quell'anima che non perisse al momento della sua separazione dal corpo nella morte? Volevano che i loro cari fossero al sicuro, ma al sicuro da cosa? Chi sapeva cosa si celasse dietro la morte? Non era forse la scienza a spiegare quanto in realtà fossimo immortali? No, non ce lo vedevo mio nonno in un aldilà e, anche se fosse davvero esistito non ci sarebbe voluto andare, non avrebbe mai e poi mai passato la sua vita immortale dove tutto fosse stato perfetto con nulla fuori posto e dove tutti si fossero amati. No, lo vedevo vivere ancora in miliardi e miliardi di molecole che si disperdevano sotto diverse forme gassose, solide e liquide o, in molecole che si legavano ad altre per formare nuove cellule, lo vedevo andare incontro ad una nuova vita, come ha già fatto chissà quante volte, come tutti noi, lui avrebbe vissuto, ancora e ancora, nel presente e nel futuro, come nei ricordi del passato.

Non ricordavo nemmeno quanto fossi rimasta in quella stanza a fissare il letto vuoto, forse stavo solo cercando un qualche segno che mi avesse indicato che in realtà era un altro dei trucchetti di mio nonno per svelarmi un altro dei tanti segreti della vita e, che da un momento all'altro sarebbe sbucato fuori dall'armadio dicendomi 'Allora? Questa volta chi ha dominato, la gaia scienza o l'Olimpo?' . Ma l'unico segno che mi arrivò fu quello della porta della stanza aprirsi, mia zia in lacrime arrivò e mi abbracciò, a quel contatto capii che era tutto vero, che era finita.

'Tu nonno. Tu hai dominato'.

Ti vivrò tra quei ricordiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora