9. La prima legge di Murphy

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Il giorno dopo, a Natale, si svegliò su una nuvola di zucchero filato.

A Durmstrang era sempre stato bello il Natale, ma lui non riceveva mai regali dalla famiglia e pregava sempre Dimitar e Mariyka di non fargliene perché non avrebbe potuto ricambiare, così oltre alla giornata libera dalle lezioni e il pranzo sostanzioso quella giornata non aveva niente di speciale, per lui.

Nonostante ciò, lui aprì gli occhi al mattino come un bambino sicuro di trovare sotto l'albero proprio quello che voleva.

Quando era tornato alla nave, la notte precedente, aveva tenuto su un sorriso impossibile da spazzare via. Persino Dimitar era stato di buonumore, dopo la sua uscita con Mariyka, non aveva dunque fatto il sospettoso rovinando il suo entusiasmo.

Aveva voglia di correre, di urlare a tutti la sua felicità, di passare le ore a raccontare a Dimitar la serata precedente in ogni minimo particolare, di saltare le lezioni e spendere la mattina a sospirare e ripensare a quello che era successo.

Un bacio, e che bacio! Un tocco, e che tocco! Tutto quello che era successo la notte precedente sembrava una bellissima, stupenda, magnifica fiaba, ed era capitata proprio a lui!

Aveva l'entusiasmo di un bambino, una gioia tanto pura e genuina che sarebbe stato quasi impossibile rovinare.

Eppure riuscirono in questo miracolo.

Non appena fece capolino dalla sua camera per andare a fare colazione, il professor Popov lo bloccò sull'uscio. «Sei atteso dal preside.»

Lui aggrottò la fronte, permesso. «È successo qualcosa?»

«Seguimi.»

Fabian guardò Dimitar, spaesato, e il suo amico gli fece cenno di andare. Seguì Popov per un tempo che parve interminabile, con un'ansia crescente che gli attanagliava le viscere e gli impediva di parlare.

Quando giunse all'ufficio del preside, il professore si fece da parte e lo invitò a bussare.

«Avanti.»

Fabian si affacciò all'interno, poi entrò e si richiuse piano la porta alle spalle. Lo studio del preside Volkov era più piccolo là nella nave che a Durmstrang, e altrettanto pieno di suppellettili. Sul soffitto era dipinto un cielo stellato con tutte le costellazioni dello zodiaco, più il grande e il piccolo carro e orione; uno stendardo con ricamati il Sole e la Luna, entrambi splendenti, era appeso dietro la scrivania a cui sedeva; il simbolo della scuola, e la riproduzione in pietra di due grandi zanne di tigre bianca si incrociavano sopra la sua testa a formare un arco; inoltre un piccolo orso intarsiato in legno lo stava osservando da sopra un mucchio di scartoffie.

«Siediti pure.»

«È successo qualcosa, signore?» chiese, obbedendo a quell'invito che era un ordine.

«Intrattenere questa conversazione con te non sarà facile» disse l'uomo, «ma fa parte dei miei doveri di preside, dunque eccoci qui.»

L'uomo sospirò, era abbigliato con una lunga tunica perlacea e non aveva capelli, una barba candida però gli era spuntata sul mento. 

«Ho visto ieri che hai avuto un accompagnatore per il ballo. Mathis La Fontaine, il campione della scuola francese. Mi sbaglio?»

«No, signore.»

«Era da tempo che, nella testata chiamata Gazzetta del Profeta, una testata locale, si insinuavano voci e calunnie su di te e il signor La Fontaine. Voci che, sono sicuro, non corrispondono alla realtà.»

Fabian deglutì ma cercò di tenere un'espressione pacata e tranquilla. «No, infatti. Mathis è un mio amico.»

«Ne sono certo, voglio sempre credere nella buona fede dei miei studenti. Purtroppo, però, con azioni come quella di ieri, finisci per alimentare certe voci e certe calunnie. Mi segui, ragazzo?»

Figlio della LunaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora