Capitolo 1 - Il Deserto

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Un vento caldo investì come un'onda d'urto le colline color argilla aride ed erose dalle intemperie, che sovrastavano in lontananza la distesa sconfinata di sabbia e ossa. Era tarda mattinata, il sole era ormai prossimo al meridiano e l'aria diventava ancora più insopportabile a causa di quel vento caldo proveniente da sud.

Le popolazioni e le tribù della zona chiamavano quel vento "Alito di Khorat" in virtù di una leggenda comune che voleva un feroce demone con tale nome vivere nella grande montagna di fuoco situata da qualche parte nel Profondo Sud, una terra inesplorata oltre le sorgenti del fiume Sopek e oltre le terre di Edonia e Shaba, abitate da uomini e donne dalla pelle d'ebano più scura di quella dei Nabiti.

Il Profondo Sud era talmente lontano che si trovava persino oltre le savane popolate da leoni, giraffe e dai nobili guerrieri mathuzi; e talmente ricco di leggende che luoghi come il Regno degli Elefanti e la Montagna di Khorat - che sputava fuoco, magma, rocce e vento caldo - erano menzionati quasi come immaginari dai viaggiatori e dagli esploratori.

Alexis adorava quelle storie e quelle leggende, simili a quelle della Grande Mano o del Nurrengard che gli raccontava il suo precettore quando era ragazzino, ma in quel momento non aveva né voglia, né curiosità di proseguire ancora più a sud in quell'inferno. E per sua fortuna, il viaggio non avrebbe portato così a sud la piccola carovana che attraversava il deserto, ma solo in quel mare di sabbia, dune e ossa che si estendeva immobile per miglia e miglia e che era segnato come una macchia oscura sulle mappe di tutti i popoli conosciuti.

Le ombre non esistevano su quelle colline e quelle dune. E l'acqua era solo un sogno. Il cielo era di un azzurro limpido e infinito, che sfumava e si confondeva con il giallo aureo delle dune fino all'orizzonte, mentre il sole era come una rovente lampada che indugiava malevola sulle loro teste e bruciava i loro volti.

La cotta di maglia che Alexis portava sotto la casacca di lino azzurra abbottonata di lato gli cuoceva la pelle sottostante. Gli stivali di cuoio erano divenuti appiccicosi e insopportabili per il sudore e la cappa restava disperatamente appoggiata sulla sella della sua cavalcatura. La spada e lo scudo fenicio pesavano e il cavallo era stanchissimo.

Il capo delle guide si avvicinò. Era un uomo del posto, un nabita dalla pelle nera e i lineamenti marcati. I capelli corvini erano racchiusi in tante sottilissime trecce. Alexis non riusciva a comprendere come quella gente riuscisse a sopportare la vita nel deserto. Lui voleva solo scappare se non fosse per la missione. Eppure i loro regni prosperavano in quelle terre aride. Persino in quei tempi bui in cui i signori del Khalaryas imponevano le loro ferree regole religiose e depredavano i loro possedimenti, i Nabiti riuscivano a mantenere la loro identità.

Il nabita era completamente avvolto in un mantello di lino bianco, con il cappuccio sceso sulle spalle. Alzò il lungo braccio scuro, nervoso e muscoloso, ed indicò verso l'orizzonte. «Laggiù» disse. «Quel gruppo di colline d'arenaria.»

Un altro uomo dalla pelle chiara e vestito di cotta e casacca si avvicinò ad Alexis e al nabita. I suoi lineamenti erano tozzi, con una lunga cicatrice trasversale che partiva da sotto l'occhio destro, passava per il naso e il lato sinistro del volto, sotto la guancia e arrivava all'orecchio. «A passo veloce ci vorranno altre tre ore.» disse in tono brusco. Guardò il compagno, poi sputò per terra un grumo di saliva secca e piena di sabbia. «Se partiamo subito, non finiremo per bruciarci la pelle.» aggiunse.

«Quante riserve d'acqua abbiamo, Mannier?» chiese Alexis rivolgendosi allo sfregiato.

Mannier, con un movimento rapido, diede un'occhiata al carico di otri posizionati su di un carro trainato da cammelli. «Per un altro giorno.» rispose con noncuranza. «Moriremo in quest'inferno, Alexis, se non troviamo subito un'oasi o una sorgente.»

Il nabita si intromise nel discorso. «Le colline verso cui siamo diretti.» spiegò. «C'è una piccola sorgente che s'incanala sottoterra. Si può fare scorta d'acqua lì.»

«Quell'acqua fetida non la bevo.» sentenziò Mannier con tono più che serio. «Acqua pagana...»

«Non cominciare, Mannier.» lo zittì Alexis con tono spazientito. «Qui non ci sei solo tu! Siamo altri tre di noi, più sei guide.» lo guardò cercando d'imporre un atteggiamento autoritario. Quel tipo di sguardo che non si deve osare contraddire. «Se tu non vuoi bere, sei libero di farlo. Ma gli altri berranno. Non voglio altri uomini sulla coscienza se posso evitarlo.» e dopo quell'affermazione distolse lo sguardo, volgendosi verso il deserto e le colline. La decisione era presa e la discussione conclusa.

Alexis tornò a rivolgersi al capo delle guide nabitiche. «Bukur.» fece. «Coraggio, portaci a questa sorgente.»

Il nabita annuì e iniziò a fare strada. «Suggerisco di fare in fretta una volta giunti.» disse rivolgendosi ad Alexis. «Queste sono le propaggini orientali di Sheb Haraad, fuori dalle carte di qualsiasi regno conosciuto. Nemmeno i Re della Sabbia si azzardano a profanare queste dune. Vi consiglio di fare lo stesso.»

Alexis ascoltò attentamente quel che il nabita gli aveva riferito e un brivido gli risalì lungo la schiena. Aveva udito le leggende sui Re della Sabbia e sulla loro feroce territorialità. Guardò Bukur con il rispetto che si confaceva a un capo e annuì. «Grazie.» rispose. «Cercheremo di essere rapidi.» e detto ciò, il nabita annuì ancora e fece strada scendendo dalla duna, seguito da Alexis, i suoi uomini e le restanti guide.

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