3. Bungalow 248

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«AIUTO!» La voce mi graffiò la gola secca, spinta dalla speranza che qualcuno mi sentisse. La consapevolezza di trovarmi da sola in mezzo a quegli alberi mi fece rabbrividire.

Mi pulii le mani dalla terra e mi guardai attorno, sperando di capire se si trattasse di un sogno o meno. Con il respiro sempre più affannoso, cominciai a ripensare agli ultimi attimi che avevano preceduto il mio arrivo in quel posto: ero a casa mia, stesa sul letto e poi... E poi mi sono avvicinata a quella strana figura, l'ho sfiorata e sono arrivata qui pensai tra me e me.

Non che mi fosse già successo di finire in un bosco senza alcuna motivazione, non era di certo una situazione normale, riuscii a chiudere gli occhi e respirare profondamente per mantenere la calma. Sentii il sangue gelarsi nelle vene, e il silenzio circostante fece sì che il battito cardiaco pulsasse con insistenza nelle mie orecchie.

«Ahi,» dissi tra me e me quando mi punzecchiai il braccio per capire se si trattasse di un sogno o di una realtà. Decisamente l'ultima; mi ero fatta più male del previsto.

Spalancai gli occhi, vedendo due figure avanzare verso di me da lontano. Ero in pericolo. Allontanai dalla mia mente ogni dubbio che mi assillava e pensai alla via di fuga più utile che mi permettesse di nascondermi da chiunque fossero quei due.

Cominciai a correre via, ma in realtà tutto ciò che stavo facendo era correre a vuoto in un posto che nemmeno conoscevo. Dove vuoi andare? Ti prenderanno lo stesso, conoscono questo posto mille volte meglio di te... Il respiro cominciava a farsi sempre più pesante. Non avevo scelta, dovevo lasciarmi prendere. Non sarei mai sopravvissuta da sola; avrei fatto il loro gioco: «Va bene, mi arrendo,» dissi, il groppo alla gola si fece più saldo.

Sollevai le braccia in segno di resa. Mi sarei fatta portare ovunque fosse il loro intento. Le figure, uguali all'ombra che avevo sfiorato prima di trovarmi lì, si bloccarono di fronte a me. Nel momento in cui incrociai quei puntini rossi, persi di nuovo conoscenza, con sottofondo la ninna nanna che mia madre mi cantava quando ero più piccola.

Non sentii niente. Il mio corpo era privo di energie e la mia coscienza si addormentò insieme a me. Ripresi la sensibilità sulle punte delle dita, non so dopo quanto tempo. Le mossi con lentezza e decisione, fino a riuscire a chiudere le mani in un pugno. Riuscii a fare forza sulle mie palpebre stanche e mi guardai attorno: una stanza vuota e grigia, nessun mobile, solo una porta con una finestrella sbarrata. Per terra, un bicchiere d'acqua, nulla di più e nulla di meno.

Cominciai a sentire il panico scorrere nelle mie vene, ma mi promisi che mantenere la calma sarebbe stata la mia strategia.

Senza farmi notare troppo, mi avvicinai alla porta e afferrai la maniglia per aprirla, ma ovviamente era ben chiusa a chiave. Così mi alzai in punta di piedi per osservare al di là della piccola vetrata sbarrata. C'erano altre porte come la mia, quindi anche altre persone come me? pensai.

Non ebbi il tempo di allontanarmi perché la mia stanza venne aperta da un signore che indossava una divisa nera. Indietreggiai, con i nervi a fior di pelle. «Quando ti sei svegliata? Senti qualche sintomo di vomito o di nausea?»

E questa confidenza? Le mie labbra erano talmente serrate e la mia mente addormentata che ci misi qualche secondo di troppo a elaborare la risposta: «Dove mi trovo?»

«Senti qualche sintomo di nausea o vomito? Febbre? Mal di gola?» mi ignorò.

«Ti ho chiesto: dove sono?» cercai di sembrare più minacciosa possibile.

Mi guardò dall'alto al basso, segnò qualcosa sul taccuino che teneva in mano, continuando a osservarmi fino a quando non concluse: «Suppongo di no. Seguimi,» e notando la mia titubanza aggiunse: «Dovresti seguirmi se non vuoi che ricorra alle maniere forti. Se svieni una terza volta, non ti posso garantire un risveglio sereno come quest'ultimo.» Si sistemò nervosamente gli occhiali da vista sul naso.

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