02. Caduta libera

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«Ripeti il tuo nome, per favore.»

«Dana.»

La donna sollevò a malapena gli occhi per guardarmi di traverso. «Cognome?»

«Meyer.»

Era almeno la decima volta che lo ripetevo nel giro di un'ora e mezza. Lo avevo detto perfino all'agente seduta davanti a me, eppure mi aveva chiesto di nuovo di ripeterlo.

«Per quale motivo ti trovavi in quel posto?»

«Mi ero persa.»

«Dove eri diretta?»

«A casa mia.» Lei aprì la bocca per pormi la domanda successiva, ma aggiunsi: «E mi ero persa perché mi sono appena trasferita qui. Non ricordavo la strada per tornare a casa. Il cellulare si è scaricato mentre cercavo di seguire le indicazioni del navigatore. Sono incappata in un vicolo e ho sentito dei rumori. Ho visto un tizio che picchiava quel ragazzo, e alla fine gli ha sparato. Poi è sparito. Il resto lo sapete già.»

Ero stufa di parlare, ero stanca di ripetere meccanicamente cosa fosse successo qualche ora prima. I medici, gli infermieri, gli agenti... era troppo.

L'agente annuì e scribacchiò qualcosa sul taccuino con aria assorta.

Abbassai la testa per osservare le mie gambe, lasciando che i capelli mi scivolassero sul viso a formare una barriera bionda tra me e l'agente. Non riuscivo a smettere di muovermi. Battere la punta del piede sul pavimento, stringere a intermittenza il pugno destro, darmi dei pizzicotti sempre più forti all'addome... Potevo anche coprire il volto con quella maschera di tranquilla che non mi apparteneva, ma il corpo mi tradiva. Tradiva ogni mia emozione, e se solo l'agente avesse prestato più attenzione si sarebbe accorta che ero in procinto di cadere nel baratro.

I rumori ospedalieri, fuori dalla stanza in cui mi aveva condotta, peggioravano la situazione. Mi concentrai allora sul mio respiro, mentre osservavo con minuziosa attenzione le schiariture naturali dei miei capelli.

«Bene», esalò infine l'agente, catturando così la mia attenzione. Puntò i suoi occhi scuri nei miei e appoggiò sul tavolo che ci separava la penna che aveva utilizzato per prendere appunti. «Sai qualcosa dei due ragazzi che hai soccorso?»

«So solo che uno è morto», dissi con freddezza.

«Lo so.»

«Ed è stato...»

«Il ragazzo di cui mi hai parlato? A quanto pare, sì. Isaac ha testimoniato. Non in maniera ufficiale, ma l'ha fatto.»

Isaac Butler era il ragazzo al quale il tizio con il tatuaggio aveva sparato.

«E se non fossi arrivata tu, probabilmente sarebbe morto anche lui», aggiunse.

«Non può saperlo con certezza.»

«No, ma le circostanze lo suggeriscono.» Riprese la penna in mano e cominciò a rigirarsela distrattamente tra le dita affusolate. I suoi capelli chiari erano acconciati in uno chignon ordinato, e cercai di concentrarmi sull'unico ciuffo che era sfuggito dall'acconciatura per non reggere il suo sguardo indagatore.

Avevo già detto tutto ciò che sapevo, eppure avevo la sensazione che stesse continuando a scavare.

«Il signor Butler non conosce il nome del suo aggressore», esordì, la voce grave. «Tu, invece? Lo sai?»

Scossi la testa con vigore. «Le ho già detto di no. Non conosco nessuno qui, a Cleveland. Mi sono appena trasferita. Come potrei...»

«L'aggressore potrebbe non essere del posto.»

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