È buonissima

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Il treno della S-Bahn è pieno di persone.

Sono seduto vicino a una signora che stringe tra le mani la sua borsa di pelle nera. "Quanta pazienza", penso. Do un'occhiata all'orologio. Segna le otto di sera. Poi guardo il pacco che ho appoggiato in mezzo ai piedi. È un regalo.

Problemi tecnici, ecco cosa mi sta facendo tardare. "Menomale che l'ho avvertito", penso. Mi manca stare con Evan. "Chissà a cosa pensa", penso. Mi manca scopare con lui. Mi manca tanto.

L'aria condizionata lega tra di loro tutti i passeggeri in attesa che il treno riparta. Fuori fa caldo. Fa sempre caldo, di questi tempi. Del resto siamo in estate.

"Che ci vuoi fare?", penso.

La signora accanto a me mi dice: «Si sta proprio bene qua, non trova?». Ridacchia, tirando fuori dalla borsetta una caramella alla menta. Sai, di quelle appiccicose che hanno le nonne nella borsa.

Mi chiede se la voglio. Scuoto il capo e lei la scarta, e se la ficca in bocca. Mi sorride.

Scendo a Frankfurter Allee, il pacco tra le mani.

Sono le nove e mezza di sera, e all'uscita dalla stazione scorgo un gruppo di senzatetto. Uno dei tre si gratta le gambe coperte di bubboni rossi. Mi sale lungo la gola un sapore acido, liquido.

Tra loro c'è anche una ragazza giovane dai capelli viola. Sta su una sedia a rotelle e gioca con un coltello. Si punzecchia le dita con la lama.

Il terzo è un ragazzo in forma, che va per i diciannove anni. Sembra essere afroamericano, non capisco. È accovacciato. Si stringe le ginocchia al petto con le braccia conserte. Ogni tanto scuote il capo.

Cammino tranquillo fuori dalla stazione. "Menomale che ho con me la pistola", penso. Sì. Sono uno sbirro, quindi posso. O almeno, così ripeto a me stesso per non rabbrividire.

È quasi tutto chiuso, eppure c'è una marea di gente per strada. Proprio come ce n'era tanta anche in treno.

Cammino a fianco della ciclabile in mattoncini rossi, le auto che sfrecciano sulla strada a lato del marciapiede. "Quanta fretta", penso. "E per andare dove?", penso ancora.

Salgo le scale del condominio dove abita Evan. Mi spiace disturbarlo col campanello, spesso dorme. Ho usato la chiave d'emergenza per entrare. Non sto nella pelle al pensiero di incontrarlo.

Arrivo al nono piano, impaziente.

Apro la porta con le chiavi, tenendo in bilico il pacco tra la mano destra e il ginocchio. Per poco non cade a terra, ma faccio in tempo a riprenderlo.

Sento dei rumori provenire dal soggiorno. Le luci sono spente. "Non capisco", penso.

«Evan?» dico. Sembra quasi che la mia voce venga risucchiata da quella cacofonia di respiri e gemiti.

«Chi va là?» domando al buio della stanza. Estraggo la pistola dopo aver appoggiato il regalo sul tavolo della cucina. Mi dirigo verso il soggiorno e accendo la luce. Non c'è nessuno.

Sento i rumori farsi più forte dalla camera di Evan.

Arrivo alla porta, e la apro.

"Quanta fatica", penso. Mi mangio una fetta di torta seduto sul letto di Evan.

«È buonissima, Evan» dico al corpo esanime di Evan. Se ne sta disteso sul pavimento con un buco sulla fronte. Anche il ragazzo che se lo stava scopando è steso a terra. Anche lui ha un buco in mezzo agli occhi. E altri buchi su tutto il corpo.

Mangio un'altra fetta di torta.

«È davvero buonissima» dico.

Quando fa BuioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora