Warschauer Straße è sempre stato un luogo di ritrovo. La movida va e viene, ma le gente del posto ci passa per accogliere nelle loro vite un briciolo d'arte in più del solito.
C'è chi si ferma qui prima di andare nei locali. Chi invece è di passaggio con l'intenzione di andarsi a prendere il take-away. Un ciclo continuo di volti nuovi, diversi. L'unica faccia che non svanisce mai del tutto è la mia.
Sì. Perché io sono sempre qui. Anche adesso.
Sono come paralizzata davanti alla performance di due artisti. Uno dei due suona strumenti elettronici che non ho mai visto prima, e l'altro canta con un effetto che gli modifica il tono di voce. Sono entrambi molto presi da quello che fanno; "Proprio come me", penso.
Sono sempre presa da quello che faccio.
Li ascolto per qualche minuto ancora, poi mi dirigo verso il fiume, dal lato della stazione della U-Bahn.
I lampioni risplendono di luci caleidoscopiche, che s'infrangono e si riflettono sui gioielli indossati dai passanti. "Turisti", penso. Sbuffo, continuando per la mia strada.
La gente mi guarda, ogni tanto. Mi fissano dritta negli occhi, poi ridacchiano, e continuano a camminare diritti. Mi chiedo cos'abbiano da guardare. Neanche fossi una celebrità o una ragazza nuda per strada.
Attraversato il semaforo del ponte, lascio cadere lo skate a terra e ci salgo sopra. Inizio a sfrecciare lungo la linea del muro, i murales che danzano sulla parete. "Che bello", penso.
Le persone adesso mi appaiono strane, come sfocate. I loro visi si mescolano tra di loro e svaniscono nella mia scia d'aria. Un'aria fresca, dolce.
Oggi aveva piovuto, e dopo tanto tempo l'estate sembrava essere finalmente mutata in autunno. Forse era una mia impressione, o forse era soltanto un preludio al caldo di agosto.
Arrivo all'East Side Park, dove la quiete è sovrana. Mi siedo a gambe incrociate sull'erba umida. Il solo scrosciare lieve dell'acqua a tenermi compagnia.
Qui intorno non c'è anima viva.
Ci sono io.
E io sono da sola.
«Che bella giornata che è stata, no?» chiedo a me stessa.
«Mi ha proprio rallegrata, sai?» rispondo a me stessa, avviando un'intera conversazione.
Sospiro, poi dico: «Forse avremmo potuto anche evitare di allontanarci così tanto da casa».
«In effetti» dico.
«Forse sarebbe anche ora di tornare indietro, che dici?» domando a me stessa.
Ancora una volta, sono io a rispondermi: «Mi sembra un'ottima idea».
«Bene» dico. «Torniamo a casa» dico prima di alzarmi dal prato erboso.
La stazione di Ostbahnof è ancora sotto riparazione.
"Che seccatura però", penso. Guardo le impalcature in metallo che sorreggono l'intera struttura come fa lo scheletro col corpo umano.
«I-impressionante, n-non trovi?» chiedo a un ragazzo che aspetta il treno accanto a me. Mi fissa per un attimo e poi distoglie lo sguardo, allontanandosi.
Gli faccio un gestaccio da dietro le spalle.
«A te che-che... che t'importa?» chiedo al mio riflesso sull'acciaio che circonda la struttura dell'ascensore. Sento degli sguardi su di me. Mille occhi iniziano a spuntare da tutte le parti. Sulle impalcature, sui muri, sul pavimento. E poi sui binari, sulle luci al neon, sui corpi delle persone che non distolgono i loro sguardi preoccupati da me. Sguardi inquisitori.
Anche il treno dell S9 ha degli occhi. Occhi inferociti che mi giudicano. Occhi che vedo ribaltarsi di novanta gradi, prima che mi raggiungano a seguito di un forte dolore alla parte sinistra del mio corpo.
"Per poco non sono morta", penso.
Un gruppo di paramedici palpa ogni centimetro del mio corpo, mentre il macchinista e una folla di gente rimane a guardarmi a lato di quella scena imbarazzante.
Si scambiano sguardi, parole in una lingua che non capisco. Forse sono preoccupati. Forse spaventati.
"Ma io sto bene", cerco di dire. Ma nessuna di queste parole esce dalla mia bocca. Sento come un nodo alla gola. Tutto inizia a tremare, come se il mio cervello avesse di punto in bianco deciso di generare un piccolo terremoto all'interno del mio cranio.
"Che belle giornata che è stata, no?", dico senza dire nulla.
La mia stessa voce mi risponde dall'interno della mia anima, dicendo: "In effetti". Poi dice: "Forse però avremmo potuto evitare di prenderci quella keta, no?".
Io rispondo, sempre dal silenzio della mia mente, dicendo: "Forse è stato quello a rendere la giornata così bella, non torvi?".
La mia coscienza mi dà ragione, congedandosi nella quiete in mezzo al rumore delle sirene.
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Quando fa Buio
Short Story"Quando fa Buio" è una raccolta di otto racconti brevi ambientati a Berlino, la capitale tedesca. Ogni racconto, ogni... favola, se così possiamo descrivere l'inquietudine che Dupois descrive tra le sue righe; porta con sé una morale nascosta, assie...