Il continuo bip del monitor multiparametrico agganciato alla sua apposita piantana vicino al mio letto, che con il suo suono eccessivamente forte per i miei gusti garantisce in pratica un controllo costante della mia frequenza cardiaca insieme ad altri valori a me incomprensibili in modo da valutare comunque in tempo reale la mia condizione, è l'unico rumore insieme a quello fisiologico del mio respiro che squarcia il silenzio all'interno di questa stanza. Ogni tanto, quando mi concedo di cambiare posizione per permettere ai miei muscoli di non irrigidirsi in maniera eccessiva restando immobile su questo scomodo materasso, percepisco anche il frusciare delle lenzuola sul mio corpo e i cigolii prodotti dalle doghe in associazione ai miei momenti. Ma a parte queste rare eccezioni, tutto intorno a me tace. Almeno qui dentro, perché fuori invece regna il caos più totale. Come accade normalmente in ogni reparto di un classico ospedale. Mi capita quindi di sentire gli infermieri confrontarsi sui pazienti presenti, mentre percorrono la corsia del settore destinato loro per la giornata spingendo i propri carrelli in modo da svolgere la terapia. Riesco ad ascoltare le discussione dei medici e le chiacchiere animate dei parenti in visita, frammentate in base agli aggiornamenti che ricevono da pianti strazianti o ansiti di sollievo. Inoltre, quando per scappare dall'assillante peso dei miei pensieri mi concentro sul serio, posso addirittura distinguere l'attrito provocato delle sedie a rotelle usate per trasportare i pazienti da quello delle barelle trascinate nel corridoio dai paramedici.
Nonostante la monotonia sia snervante, sebbene possa comunque definirla meno fastidiosa soprattutto se paragonata al rumore prodotto dall'attrezzatura ospedaliera, non mi lamento. Molto probabilmente prima – ovvero appena qualche giorno fa, dato che sono passate appena quarantadue ore da quando sono stata portata in questo ospedale – la suddetta situazione di immobilità mi avrebbe logorata in fretta, considerato il mio carattere esuberante e la tipica turbolenza adolescenziale che nell'ultimo periodo ha naturalmente condizionato ogni mia azione. Tuttavia al momento preferisco questo ambiente bianco e privo di stimoli alla frenesia che di recente ha accompagnato le mie giornate, scandite dall'esaltante attesa di iniziare un nuovo anno di liceo in seguito all'imminente fine dell'estate.
Ma la verità è che adesso mi sento a mio agio restando segregata tra queste mura, dove per la maggior parte del tempo esisto solo io. Dove non posso fare del male a nessuno, mentre le mie ferite – fisiche e mentali – al posto di rimarginarsi continuano ad approfondirsi fino a darmi l'impressione di arrivare a toccare la mia anima. Dove regna una calma quasi assoluta e i suoni sono ridotti al minimo proprio per darmi l'illusione di essere isolata, rappresentando però ugualmente un fastidio per me nonostante il volume ridotto data la loro ritmica ripetitività.
Di conseguenza se potessi davvero restare esclusa da tutto, perfino dall'attuale consapevolezza che ho di me stessa, sarei davvero soddisfatta. Invece in questa camera fredda ed impersonale riesco solo in parte a spegnere la mia mente, estraniandomi dal resto del mondo. Anche se non abbastanza. Questo tipo di atteggiamento non dovrebbe comunque essere normale per una ragazza di sedici anni abituata alle interazioni sociali, però in questi giorni le cose sono cambiate. La mia quotidianità si è trasformata in un incubo, portandomi in maniera del tutto inevitabile a chiudermi in un bozzolo. Ma per gli psichiatri che mi hanno visitata la mia attuale apatia non è un fattore da considerare preoccupante, al contrario loro hanno definito il mio comportamento assolutamente comprensibile da un punto di vista analitico se associato al trauma che ho subito. Questo ha rassicurato i miei genitori, che di conseguenza non si sono interrogati troppo sull'utilizzo degli psicofarmaci che mi sono stati prescritti nonostante le mie reazioni del tutto conformi ai loro parametri. Se la situazione fosse sotto controllo, come vogliono farmi credere, non sarebbero necessarie medicine per sedarmi. Tuttavia non sono infastidita dallo stordimento che mi provocano le pastiglie, per questo non mi oppongo alla terapia e anzi accolgo con favore la sonnolenza che mi avvolge. Anche per questo vengo lasciata spesso sola, con mia grande consolazione. In effetti non mi stupisce il sollievo che percepisco alla prospettiva di non avere alcuno sguardo puntato addosso, così come considero naturale sentirmi tranquilla quando interagisco con gli infermieri che si occupano di somministrarmi i farmaci. Sebbene eviti comunque qualsiasi contatto diretto con loro. A mio parere non ci vuole a un professionista per capire che dopo lo stupro odio essere toccata, detesto avere consapevolezza della realtà e non sopporto le occhiate colme di pietà che mi vengono rivolte. Non avere compagnia dunque risolve gran parte dei miei problemi emotivi, ma non so per quanto ancora durerà questa calma che provo.
Devo ammettere che per quanto io continui ad apprezzare il silenzio che mi circonda, inizio a non sopportare più i segnali acustici emanati dal monitor collegato al mio corpo. Sono logoranti e stanno mettendo a dura prova i miei nervi, già oltremodo provati da tutta la situazione. Pertanto credo ormai di aver raggiunto il mio limite, quell'inevitabile punto di rottura che i dottori si aspettavano già dal mio arrivo al pronto soccorso, anche se cerco di non darlo a vedere. L'ultima cosa che desidero in questo momento infatti è ricevere una puntura a causa dei miei sentimenti in apparenza fuori controllo, perché assumere una dose extra di farmaco tramite un'iniezione intramuscolare non solo non è un'esperienza piacevole ma mi provoca anche uno stordimento eccessivo che attualmente vorrei evitare, quindi mi sforzo di mantenere il mio respiro regolare come il battito del mio cuore. In questo momento critico la terapia regolare è un male necessario da sopportare per garantire la mia stabilità, ma essere drogata e venire legata al letto con le pastoie contenitive è troppo anche per me. È una misura degradante. Per questo, anche se è difficile, mi impegno per fare in modo che questa non accada. Dunque adesso che sono ancora relativamente tranquilla viene scandito un ritmo ben preciso dall'apparecchiatura alla quale sono collegata, ciò nonostante è più forte di me concentrarmi su altro e non posso fare a meno di temere l'istante in cui questa cadenza si interromperà. E credo succederà prima del previsto, perché devo ammettere che il fastidio sta cominciando a crescere minuto dopo minuto a causa appunto del costante bip che mi martella nelle orecchie. Inoltre il rumore sembra quasi aumentare di volume ogni secondo che passa, nonostante sia consapevole dell'impossibilità della cosa, portandomi ancora di più sull'orlo dell'irritazione. Il mio stato d'animo quindi, a prescindere dalla mia volontà, sta seriamente cominciando a risentirne e anche il comando che sto esercitando su me stessa sta scivolando via in modo inesorabile conducendomi in pratica ad un passo dal mio crollo definitivo. Mentre nel frattempo i secondi trascorrono, fino a trasformarsi in minuti.
Già, il tempo passa senza che io possa farci niente. Senza che io possa fermalo. Tuttavia, dopo quello che mi è successo, ormai per me niente ha più senso. Quindi le ore che si susseguono non catturano affatto il mio interesse, allarmandomi, al contrario rappresentano solo il concretizzarsi di un altro faticoso giorno che finalmente si conclude. Presto arriverà la notte e con lei il buio, dove mi sento più a mio agio. Sebbene i demoni che mi perseguitano riescono a muoversi meglio tra le ombre. Ma il ritmo nell'ospedale rallenta e questo mi permette di tirare un sospiro, perché sono consapevole che ci saranno meno persone a controllarmi. A parte l'infermiera che all'inizio del suo turno mi porta l'ultima dose di sonniferi della giornata e la guardia appostata alla mia porta, non c'è nessun altro.
Come in questo preciso momento, nel tardo pomeriggio. Mentre il sole tramonta all'orizzonte, illuminando questa bianca camera d'ospedale con mille sfumature di arancione. Poco prima che venga distribuita la cena, composta da piatti insapore e al massimo un budino al cioccolato. I miei genitori si sono appena concessi una pausa dal caos che ha stravolto la mia vita, costringendomi in questo letto. Probabilmente sono andati al piano di sotto, a prendersi qualcosa da bere ai distributori automatici. Però, se devo essere sincera, sto bene qui senza di loro. La verità è che non sopporto gli sguardi compassionevoli e sofferenti che continuano a rivolgermi, così come non riesco a gestire il senso di colpa che immancabilmente mi grava sulle spalle. Per questo preferisco il vuoto che mi circonda e sento dentro, alla presenza della gente. Perfino quella dei miei stessi genitori. Anche se i muri asettici che delimitano il perimetro di questa stanza, a mano a mano che il ticchettio prodotto dalle lancette dell'orologio sembra adeguarsi a quello dello snervante bip del monitor che mi perseguita perfino nei miei incubi, mi danno quasi l'impressione di starsi stringendo intorno a me. Come a volermi soffocare in questo spazio. Non sarebbe però una morte terribile, soprattutto dopo quello che ho passato. Dopo quello che mi è stato strappato via e non mi verrà mai restituito, insieme alla mia sanità mentale. Al contrario il pensiero di mettere fine alla mia sofferenza e zittire finalmente la mia mente è alquanto allettante, quindi sopporto con stoico coraggio il panico che mi serra la gola e anzi lo accolgo addirittura con piacere. Di conseguenza il bruciore che avverto, quando il mio fiato si spezza e i miei polmoni cercano freneticamente aria per garantire il loro ruolo fisiologico, è quasi piacevole. Così come l'idea che il mio prossimo respiro potrebbe non avvenire.
È strano pensare che qualche giorno fa questa solitudine e questa angoscia paralizzante mi avrebbero sicuramente terrorizzata, perché come ogni normale ragazzina di sedici anni ero convinta che venire isolata fosse un vero incubo. D'altronde a scuola la reputazione è tutto, così come stare con le persone giuste. Per evitare di essere presi di mira, per poter vivere tranquilli e non sentirsi costantemente braccati. Il liceo in fin dei conti è paragonabile alla jungla, dove regna la legge della sopravvivenza e del sapersi adattare. Non è un mistero che gli adolescenti sanno essere davvero crudeli, soprattutto quando puntano una preda e si accaniscono contro i più deboli chissà per quale sorta di macabro divertimento. Nessuno però vuole diventare la facile preda dei bulli, per questo bisogna stringere le amicizie più opportune e sedersi in mensa con il gruppo più forte. Non importa se è composto da sportivi idioti, cheerleader ridacchianti e groupie dal dubbio quoziente intellettivo. Io stessa mi sono adattata alla realtà dei fatti diventando una ragazza pompon, anche se mi sono rifiutata di sentirmi superiore o fare la parte della stronza per questo. Ma ora sono consapevole che fare parte di un gruppo per non restare isolati non è necessariamente la cosa più importante del mondo, perché sono altre le vere priorità. Sono altre le cose che fanno davvero paura, ma di sicuro avrei preferito scoprirlo in un'altra maniera piuttosto che sperimentarle sulla mia stessa pelle. Adesso uno spaccone presuntuoso e una reginetta fin troppo vanitosa sembrano il male minore, se non addirittura nulla, rispetto alla violenza che ho subito.
Rispetto a quello che ho fatto: ho ucciso quattro ragazzi, anche se non so nemmeno come. Anche se non sono neppure convinta di essere stata io, nonostante le supposizioni degli agenti. Nonostante lo sguardo perplesso di mio padre e quello spaventato di mia madre, che non mi ha toccata una singola volta da quando sono finita in questo letto d'ospedale sotto stretta sorveglianza. Probabilmente perché sono sporca e non merito più le sue carezze, non dopo quello che pensano io abbia fatto. Anche se, a prescindere da tutto, dubito che sarei stata comunque in grado di accettarle. Ad ogni modo la verità, sebbene nessuno al momento voglia credermi, è che un attimo prima quei ragazzi erano lì – tre intorno a me con dei sorrisi osceni stampati sui loro volti ed uno inginocchiato tra le mie gambe con i jeans slacciati – mentre quello successivo giacevano tutti carbonizzati sul terreno del parco.
Ho memoria delle urla che hanno emesso prima di morire, intanto che le fiamme avvolgevano i loro corpi rendendo le loro forme irriconoscibili, insieme all'odore putrido di carne bruciata. Ricordo lo shock che ha paralizzato le mie membra durante l'inaspettato assalto che ho subito, lo strano calore sul palmo delle mie mani mentre cercavo di spingere via Paul, il sangue che macchiava l'interno delle mie cosce dopo lo stupro e la punta di soddisfazione che ho provato nell'assistere alla loro meritata punizione. Ma non sono stata io a dargli fuoco, non avrei mai potuto farlo. Insomma non è stato trovato nemmeno un accendino sulla scena del crimine, quindi non è chiaro come avrei potuto innescare l'incendio senza una fonte. Sebbene ogni prova converga contro di me, a livello logico non c'è una spiegazione. Però devo ammettere che mi sono sentita felice, per quanto mi vergogni ad ammetterlo, quando ho assistito alla loro morte.
Pensavo se lo meritassero, per quello che mi avevano fatto.
Forse gli altri non hanno tutti i torti a considerarmi pazza.
Per questo adesso mi va bene non percepire niente, non essere toccata e non essere neppure guardata. Anche se so che non durerà molto. Presto infatti ci saranno altri interrogatori, altri esami e altre persone pronte a studiarmi per cercare di venire a capo di questa situazione. Tra poco dovrò sorbirmi altre punture ed altri prelievi, insieme ad infinite chiacchiere unilaterali. Quindi cerco di godermi questi pochi attimi di tranquillità, nonostante l'angoscia perpetua che agita la mia anima. Fisso allora intensamente i motivi geometrici del mio camice, provando nel frattempo ad ignorare i suoni prodotti dal monitor che segnala il mio battito cardiaco grazie al saturimetro legato al mio indice. Trascorrono dieci minuti – ed un infinito numero di bip – prima che la porta della mia camera si apri di nuovo, permettendo l'accesso dei miei genitori accompagnati da due uomini dell'FBI.
È la prima volta da quando sono ricoverata che degli agenti federali vengono a trovarmi, perché fino ad ora solo dei poliziotti ordinari si sono occupati del mio caso. Gli stessi che quel giorno sono venuti al pronto soccorso, dopo la segnalazione dello stupro da parte dei paramedici che sono accorsi sul posto in seguito alla segnalazione di qualche passante che aveva notato il fumo. Adesso invece capisco le cose si stanno facendo serie ed inevitabilmente la mia frequenza aumenta, mandando in tilt anche la macchina dei miei parametri. Non voglio sembrare sconvolta o preoccupata, però è difficile mantenere il controllo delle mie emozioni mentre questi uomini mi osservano con i loro sguardi scrutatori.
«Ciao, Elisabeth» mi saluta il più alto, accompagnando la sua manifestazione di cortesia con un sorriso sincero. «Come stai?» mi chiede, prendendo posto sulla sedia sistemata alla mia destra senza neppure chiedermi il permesso intanto che il suo collega resta in piedi dietro di lui.
È ovvio che sono loro a detenere il potere in queste circostanze, ma mi infastidisce il fatto che non si stiano nemmeno sforzando di fingere di avere a cuore il mio stato d'animo. È chiaro che non vogliono mettermi a mio agio, ma quasi intimidirmi. Perché questo in fondo è solo l'ennesimo interrogatorio in cui vengo vista come la sospettata principale di un delitto, per questo mi limito a fissarli in modo impassibile e non rispondo alla sua domanda diretta. So che non gli interessa davvero la mia salute, in fin dei conti gli basterebbe leggere la mia cartella – cosa che entrambi avranno sicuramente già fatto prima di entrare qui – per avere una risposta più che esaustiva sul mio stato. Ma è ovvio che oggi questi due agenti non sono venuti nella mia stanza per parlare delle mie condizioni mediche, anche se forse fa parte della loro strategia mostrarsi un minimo impensieriti dalle mie ferite. Provare a trasmettermi la loro calcolata empatia, prima di passare ai quesiti più scomodi. Tuttavia non sono troppo convincenti, al punto che sono assolutamente consapevole della loro mancanza di interesse per i lividi presenti sulla mia faccia. Così come è chiaro che non sono affatto impressionati dai segni viola sul mio collo, che mi sono stati provocati da Paul quando cercava con una mano di tenermi giù rischiando di soffocarmi mentre al provava ad aprirsi contempo con l'altra la patta dei pantaloni. Non penso vogliano sapere quanto mi danno fastidio le due costole incrinate che ho ottenuto per merito di Quinn, che non ha esitato neppure un attimo a prendermi a calci all'altezza del torace dopo avermi buttata con forza a terra quando ho provato a scappare prima di essere violentata. Il tutto ridendo come un idiota, schernendomi per la mia debolezza e facendo commenti osceni. E sono sicura che non hanno alcuna curiosità nel sapere come mi sento a livello emotivo dopo aver perso la verginità in seguito ad una violenza collettiva, iniziata da quello che credevo essere il mio dolce fidanzato del liceo e guidata poi dai suoi migliori amici.
«Tesoro, questi agenti sono qui per sentire la tua storia» mi avverte mio padre, nel momento in cui capisce che anche oggi resterò ostinatamente in silenzio.
Ho provato solo una volta a dare la mia versione dei fatti, la sera stessa dello stupro. Quando sono stata portata al pronto soccorso, dopo essere stata soccorsa dai paramedici. Erano state le sirene a risvegliarmi dallo stato di torpore in cui ero caduta dopo le percosse che mi avevano quasi fatto svenire e tutto quello che era conseguito, tuttavia sono consapevole di come apparisse la scena ai loro occhi quando sono arrivati al parco e mi hanno trovata seduta in mezzo a quattro corpi carbonizzati. Sì, ero malridotta. Brutalmente ferita. Ma l'unica viva. Allora ho raccontato loro la verità, perché pensavo potessero aiutarmi a trovare una spiegazione sensata a quello che mi era successo. Non solo lo stupro, ma quelle fiamme che ci avevano circondato all'improvviso e mi avevano risparmiata per chissà quale miracolo. Tuttavia non è stato così. Mi sono pentita di aver parlato con i poliziotti e i medici quando, dopo neppure venti minuti dalla mia straziante confessione, è venuto a farmi visita uno psichiatra per cercare di spiegarmi come gestire al meglio il mio trauma. Per aiutarmi a rimettere i pezzi nel giusto ordine, in modo da avere una prospettiva realistica su quello che avevo fatto. Il vecchio dottore mi ha parlato con voce calma e rassicurante, mentre il sangue mi imbrattava ancora i vestiti e le lacrime si erano ormai asciugate sulle mie guance, ma la diffidenza nei suoi occhi era più che evidente.
Da allora sono rimasta zitta, persa nei miei pensieri. Rivivendo ancora e ancora quei momenti nella mia mente, anche se mi facevano male, per cercare di dargli un senso.
Sono due giorni quindi che sono rinchiusa qui dentro, sopportando esami più o meno invasivi mentre provo nel frattempo a convincermi di non essere del tutto fuori di testa. Ho perso il conto degli specialisti che si sono presentati nella mia stanza per ottenere aggiornamenti sul mio stato di salute, insieme alle sedute psicoterapeutiche svolte nel breve periodo del mio ricovero e al numero di pastiglie che le infermiere mi portano puntualmente ogni mattina in piccoli bicchierini di plastica trasparente. Ma sono stanca soprattutto degli interrogatori interminabili con le forze dell'ordine, nonché dei giornalisti che provano di continuo ad ottenere un'intervista.
«Che cosa è successo l'altra sera?» mi sprona il secondo agente, che con il suo completo scuro e gli occhi ugualmente neri sembra particolarmente intimidatorio. Anche la sua posa non è affatto rassicurante, considerate le sue braccia incrociate e la rigidità dei suoi muscoli.
Lui è quello che ha la parte del cattivo, tra i due. D'altronde sarebbe impossibile per l'uomo seduto accanto a me non venire catalogato come il poliziotto buono, in fin dei conti ne è la perfetta rappresentazione grazie ai suoi gentili occhi azzurri e al suo sorriso sereno. Perfino il suo aspetto più casual e rilassato gioca a suo favore, ma per quanto la sua giacca sportiva e i suoi jeans chiari possano piacermi non sono comunque in vena di parlargli.
«Lo sappiamo che quei ragazzi ti hanno fatto del male» tenta di rassicurarmi il diretto interessato, mostrandosi comprensivo nei riguardi di quello che sto provando e tentando quindi con una tattica diversa. «Vogliamo solo sapere come si sono svolti i fatti» prosegue, chiarendo il suo lavoro.
Come si sono svolti i fatti.
A loro interessa solo questo, lo so. Niente di più e niente di meno, soltanto i fatti. Ma non ho nulla da aggiungere rispetto a prima: mi sono fidata del mio ragazzo, l'ho seguito in quella radura con l'illusione di trascorrere un pomeriggio romantico in sua compagnia e invece sono stata violentata. Poi, mentre mi auguravo che la morte prendesse il sopravvento su quella sofferenza e cercavo di ignorare il corpo di Paul steso sopra il mio insieme alle mani dei suoi amici che mi toccavano, all'improvviso il fuoco ci ha circondati. Allora nessuno mi stava più addosso e anche quelli che mi stavano immobilizzando a terra sono inaspettatamente scomparsi, perché le fiamme avevano avvolto le loro figure e dopo una manciata di minuti – durante i quali ho sentito con estrema chiarezza le loro urla – tutti erano sdraiati accanto a me. Morti. E per quanto mi dispiaccia deludere i federali, non ho davvero altro da dire.
«Non siamo qui per giudicarti, bambina» continua mio padre, mettendosi ai piedi del mio letto ed allungando una mano per provare a stringermi giocosamente i piedi. Come quando ero piccola. Però prima che possa anche solo sfiorarmi, ritraggo le gambe e mi rannicchio su me stessa.
Non mi sfugge la sua espressione sofferente quando fa un passo indietro per ristabilire una certa distanza, non solo fisica, tra di noi. Così come risulta palese il modo in cui cerca di fare finta che il mio gesto non lo abbia ferito, nonostante sia chiaro il contrario. A livello razionale sono consapevole che papà vuole solo consolarmi, ma in questo momento non riesco a gestire la vicinanza di nessuno. Mi vergogno e ho paura, sia degli altri che di me stessa. Perché anche se sono alquanto sicura di non aver ucciso direttamente quei ragazzi, non posso fare a meno di pensare che ero l'unica ad essere là con loro.
In quell'angolo di parco, c'eravamo solamente noi.
Eppure sono la sola ad esserne uscita viva, quando ogni probabilità era contro di me. Quindi, nonostante non riesca a ricordare tutto perfettamente, deve essere successo per forza qualcosa in quella radura. I miei ricordi sono a tratti confusi e nemmeno se provo a concentrarmi riesco a dare loro un senso, tuttavia ci deve essere necessariamente una spiegazione per giustificare quei corpi carbonizzati e la mia quasi totale incolumità. Perché, a parte le cicatrici e le ferite provocatemi da Paul, non c'è neppure un segno di bruciatura sulla mia pelle. Nessuna. Forse, in qualche modo del tutto inspiegabile, sono davvero responsabile di quell'incendio. Per questo non voglio rischiare inconsapevolmente di ferire i miei genitori e anche se mi dispiace comportarmi in questa maniera, con questa freddezza che sembra quasi gelare il mio steso sangue, non posso fare altrimenti. È ovvio che odio vedere gli occhi grigi di mio padre, così simili ai miei nelle loro sfumature, così colmi di dolore. Ma non riesco a fare nulla per rassicurarlo. Sono consapevole che per lui e per mia madre dev'essere stato traumatizzante venire chiamati nel tardo pomeriggio per sentirsi dire al telefono che loro figlia era stata portata d'urgenza in ospedale in seguito ad una violenza sessuale, durante la quale quattro ragazzi erano finiti uccisi probabilmente proprio dalla loro stessa bambina che da vittima che si era trasformata in carnefice. Non li biasimo dunque per il loro atteggiamento scostante, per non sapere come trattarmi e per il timore che adesso condiziona le loro interazioni con me. Per loro sono fragile, ma allo stesso tempo pericolosa.
Una specie di bomba pronta ad esplodere, senza sapere il danno che può causare.
Non incolpo la mamma per la sua indifferenza, il suo desiderio di starmi lontana e la sua mancanza di tenerezza. Probabilmente, in questo preciso momento, non riuscirei nemmeno a sopportare le sue carezze. Eppure di notte, poco prima di abbandonarmi al sonno con la speranza di non finire di nuovo in un qualche terribile incubo prodotto dal mio subconscio danneggiato, desidero disperatamente un suo cenno affettuoso.
Un bacio sulla fronte.
Le sue dita tra i miei capelli neri.
Gesti che prima ho spesso dato per scontato e forse qualche volta mi hanno addirittura infastidita, ma adesso mi mancano. Più di ogni altra cosa. Perché prima, quando ero solo una semplice e stupida ragazzina di sedici anni troppo orgogliosa per ammettere di volere ancora le coccole della mamma, erano la normalità. Ora la mia età non è cambiata, ma non c'è nulla di semplice in questa situazione.
«Lo sappiamo che è difficile, ma devi essere coraggiosa e...» continua il poliziotto buono, facendomi talmente innervosire a causa delle sue parole – le stesse che da giorni mi rivolge lo psichiatra incaricato di seguire il mio caso – da indurmi ad interromperlo.
«Non sono coraggiosa» mormoro, percependo la mia voce vacillante quasi estranea alle mie stesse orecchie. «Sono terrorizzata, al punto che mi sembra quasi di non riuscire a smettere di tremare, ed ogni singola volta che chiudo le palpebre vedo i loro volti» continuo, stanca di aver pronunciato così tante parole dopo giorni di ostinato mutismo.
«Cos'è successo, Elisabeth?» riprova il secondo agente, sfruttando lo slancio della mia confessione e sfidandomi i miei limiti.
«Non lo so» sussurro, sentendo i miei occhi inumidirsi.
«Cos'è successo?» insiste l'uomo, incurante dei miei sentimenti e del mio sconvolgimento.
«N-non lo so» balbetto, stringendo i pugni con rabbia.
Una rabbia cieca, che riscalda il mio corpo. Come quel giorno. Perché non è giusto che io riceva questo trattamento e debba sopportare una tale sofferenza, solo per essermi in qualche modo difesa. Solo per aver trovato la forza di reagire, in un momento in cui mi è quasi sembrato di poter guardare la morte dritta negli occhi e una parte di me – quella completamente distrutta dalla violenza gratuita che mi stavano riservando – si era perfino augurata che tutto finisse il più in fretta possibile. Ma poi le mie urla sono state sostituite da altre, l'odore del mio sangue si è mischiato a quello della loro carne bruciata ed io mi sono improvvisamente liberata dal peso di quel corpo che fino a pochi attimi prima si era imposto sul mio. Schiacciandomi, degradandomi e spezzando la mia anima. Paul, che mi aveva violentata per rimarcare di fronte ai suoi amici una qualche forma di potere che forse i miei continui rifiuti avevano messo in discussione, giaceva morto accanto a me. Irriconoscibile. Allora sono rimasta a mia volta sdraiata sul terreno, incurante dei miei vestiti strappati e delle mie numerose ferite, ammirando il cielo che si stavano a poco a poco scurendo ma era ancora privo di stelle mentre le fiamme che fino a quel momento avevano mangiato i miei aggressori si spegnevano lentamente.
Questo però non faceva di me un'assassina.
Eppure ora mi trovo qui, in questo ospedale, con una guardia appostata fuori dalla porta della mia camera con il preciso scopo di sorvegliarmi. Nel frattempo due agenti federali mi stanno interrogando, il tutto davanti ai miei genitori che però sono troppo travolti dai fatti per prendere in mano le redini di questa conversazione. Per dettare delle condizioni, proteggermi e salvaguardare i miei interessi.
È inevitabile quindi che adesso mi senta frustrata ed infuriata, non ci vuole di certo un terapeuta certificato per capire che la mia reazione è perfettamente giustificata considerata la mia condizione. Invece quello che non rappresenta la normalità è il calore rovente che fa formicolare le mie dita, portandomi a sbarazzarmi del saturimetro legato al mio indice sinistro e lasciandolo cadere a terra con un leggero tonfo. Il monitor allora inizia a suonare, per poi spegnersi all'improvviso mentre una scintilla passa tra i cavi e un piccolo incendio si propaga a livello della presa.
L'allarme posto sul soffitto della camera si aziona con immediatezza appena il fumo comincia ad alzarsi e i due agenti dell'FBI non esitano ad entrare in azione, recuperando un estintore per poi azionarlo con una certa destrezza intanto che un'infermiera si precipita a chiamare il numero di soccorso interno dell'ospedale per gli addetti designati a questo tipo di emergenze. I miei genitori intanto si avvicinano al mio letto, dove sono ancora rannicchiata, e si abbracciano con forza mentre provano a non sembrare eccessivamente spaventati dall'incidente.
I minuti successivi sono frenetici, con i responsabili della sicurezza che evacuano la mia stanza e altri poliziotti che accorrono sul posto, e la confusione generale non mi permette di analizzare la situazione. Sono solo consapevole del fatto che vengo spostata in un'altra ala del reparto, accompagnata dai federali che mi rivolgono occhiate cariche di sospetto durante tutto il tragitto che serve all'infermiera per guidarmi in carrozzina fino alla mia nuova camera. Entrambi sembrano aver perso la fiducia nei miei confronti ed ora anche il tipo che reputavo essere l'agente buono non sembra più tanto disposto a mostrarmi gentilezza, sono sicura che tutti e due devono pensare che c'è qualcosa di strano in tutto questo. D'altronde me ne sto convincendo anche io. Sento mio padre sussurrare qualcosa alla mamma, che sta di nuovo singhiozzando, ma non capisco il senso della sua frase. Forse stanno iniziando a credere che sono davvero colpevole, che una qualche anormalità mi ha colpita. Perché non c'è davvero una spiegazione logica per quello che è appena accaduto, non esiste un fenomeno scientifico che può spiegare come io abbia potuto mandare a fuoco un dispositivo medico senza avere un fonte di calore per innescare l'incendio. Come è successo quel pomeriggio, al parco. Dove non c'era nessun accendino. E adesso sono sicura di essere stata io, sono un'assassina.
Un'assassina e un mostro, dalle cui mie mani si diffondono le fiamme. E adesso non posso fare a meno di pensare che presto finirò bruciata a mia volta, ma forse... forse in fondo me lo merito.
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the heat - BURN
ParanormalDal giorno in cui aveva ucciso i quattro ragazzi responsabili della sua aggressione dando loro fuoco semplicemente toccandoli, tutto era cambiato per Elisabeth. A sedici anni era diventata un'assassina, dopo essere stata stuprata da quello che consi...