PARTE I (introduzione, capitolo I).

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un breve riepilogo.

era da un paio d'anni che non trascorrevo l'estate a casa dei miei zii, sarà per una questione di paura, dopo tutto ciò che successe quell'anno (nulla di eclatante, a meno che non lo si osservi dall'occhio di chi ne è stato la vittima), sarà perché l'estate scorsa ebbi parecchio da fare, stranamente.
durante questo lungo arco di tempo non ho mai più sentito orlando e, a dirla tutta, non mi è dispiaciuto. anzi, mi sono assai divertito a prenderlo molto spesso in giro, d'altronde penso che le persone bizzarre si meritino di essere schernite. non si può dire che si sia comportato correttamente, ma ormai quel capitolo della mia vita può dirsi chiuso e, se proprio mi torna in mente di tanto in tanto, è a causa di quegli odori tipici che hanno la facoltà di risvegliare i ricordi di cui meno ci interessiamo e farli sembrare prioritari per qualche istante; non è una sensazione spiacevole, lo diventa solo quando si è ancora nel pieno di una situazione complessa dalla quale si sta cercando di fuggire, e la memoria non collabora, anzi, rende ancora più arduo liberarsi da quella trappola.
i miei zii, emanuele e francesco, hanno comprato una nuova casa - come, già al tempo, sognavano di fare - e ho atteso il momento di visitarla per l'intero inverno, il quale, come sempre, sembrava non terminare mai. l'inverno è sfortunatamente sempre lo stesso, ormai pare anche rubare una fetta di primavera; ha decisamente ragione chi abusa dell'argomento di circostanza secondo cui le mezze stagioni non esistono più. non ricordo l'ultima primavera della mia vita, e se odio così tanto l'autunno è forse perché, negli ultimi anni, esso è stato in realtà una serie di inverni. a confortarmi c'è perlomeno la consapevolezza che l'estate arriverà sempre, o almeno credo, non sono un esperto in questo campo. sono un esperto in ben poco, se proprio vogliamo essere sinceri; l'ultima volta che ho scritto, ero considerato il classico enfant prodige, o forse me ne sto convincendo solo adesso pur di trovare un pretesto per non adattarmi alla situazione attuale, però sono sicuro che le mie capacità fossero abbastanza cristallizzate da non poter essere messe in dubbio, oggi è tutto diverso. non dico che io sia diventato stupido, per carità, forse non sarebbe che un bene, giacché gli stupidi soffrono di meno perché molte cose non possono capirle, ma non si può negare che il passaggio da un ambiente ad un altro così diverso abbia avuto un effetto negativo sulla mia forza di volontà, in modo tale da rendermi di certo più sfaticato rispetto a quei tempi in cui studiavo dalle 14:30 alle 18 cercando di alzare il meno possibile la testa per distrarmi al cellulare. continuo ad iniziare a studiare alle 14:30, ma resisto solo fino alle 17, e non sto a precisare quante sono le volte in cui perdo la concentrazione e mi dico di meritare una breve pausa, nonostante l'ultima risalga a qualche minuto prima. in qualche modo tiro avanti.
ho passato tutti i mesi invernali ad uscire con sara, un po' come una volta, per seguire la nostra solita routine: fare un breve giro, andare a cenare con i soldi della borsa di studio, fare un altro giro e comprare delle caramelle, sederci sulla solita panchina. non me ne lamento, non mi lamenterei mai di qualcosa che resta sempre uguale.
cos'altro si potrebbe dire di me? non sono solito subire troppi cambiamenti nel tempo, molti tratti di me si sono sviluppati anni e anni fa e nulla li ha mai cancellati, dunque si potrebbe affermare che io sia lo stesso di due anni fa e, ahimè, se mi succedesse tutto da capo, sono certo che reagirei nel medesimo modo. sembrerà controverso se si ricorda che sono fermamente convinto che ognuno di noi diventi tanti sé differenti con lo scorrere del tempo e degli eventi, ma mi sarà necessario precisare che non mi riferisco ad individui con dei bagagli di idee ogni volta diversi, con delle concezioni della vita opposte a quelle precedenti, bensì ad esseri umani dotati di sentimenti che obbediscono ciascuna volta ai capricci di un amore, o di una delusione, o di un'esperienza, o di qualsiasi altro fattore che li influenzi, diversi nel tempo e, soprattutto, nello spazio.

e.

I

la loggia era il nome della casa che avevano comprato i miei zii. era parecchio diversa dal borgo il villino della volta precedente; innanzitutto, questa era di loro proprietà, di conseguenza potevo restare per più tempo, tanto che tornai a casa soltanto a settembre - e partimmo a giugno. purtroppo per la mia scarsa abilità a socializzare, non erano gli unici ad abitarci, o meglio, era una grande villa suddivisa in più appartamenti adiacenti l'uno all'altro: uno di questi apparteneva ai miei zii. prima di quel momento, l'avevo vista solo in foto, sapevo che ammirarla con i miei occhi, dal vivo, sarebbe stato assai diverso, e infatti così fu.
fummo accolti dal lungo viale di cipressi che, non posso omettere questo dettaglio, mi ricordò orlando per qualche secondo, in particolare una frase che mi disse quell'estate in risposta ad una foto della vista dalla finestra della mia camera: "si vede che sei in toscana, ci sono un sacco di cipressi". chissà dov'era lui, mi chiedevo, ma sostanzialmente poco mi interessava di ricevere una vera e propria risposta.
era una di quelle giornata dal sole, come lo chiamavo io, montaliano, ovvero quello che emana così tanto calore da risultare quasi freddo, disturbante, lacerante, ardente come se fosse fuoco ma appuntito, che ti può scalfire per quant'è fiammante. non era il mio clima ideale, ma non mi dispiaceva del tutto, perché l'atmosfera, dall'altro lato, non era nemmeno lontanamente paragonabile ad esso. i miei zii parlavano del più e del meno, a dire il vero non dibattevano su un singolo tema: mio zio emanuele faceva barzellette - proprio come quella prima estate, durante la quale ne tirò fuori così tante che ne stilammo una lista - mentre francesco si preoccupava di dover pulire la casa, dal momento che ci saremmo stati per molto tempo.
i miei genitori sarebbero arrivati la settimana seguente, ma sarebbero rimasti solo per un paio di giorni poiché mio padre aveva già richiesto una settimana di ferie per settembre, quando avremmo fatto un breve viaggio di qualche giorno a roma. da un lato mi faceva piacere che venissero, così avrei potuto assaporare ancora meglio la possibilità di stare in solitudine e godermi quei paesaggi e quella casa; avevo già adocchiato, in particolare, una sorta di balcone con una poltrona rossa, sulla quale sapevo che avrei passato gran parte del mio tempo, perché avrebbero parlato a lungo con i miei zii, soprattutto mia madre che, quando iniziava, non la finiva più di parlare (l'ho sempre trovato qualcosa di simpatico, e a me piacciono le persone che parlano molto, così non devo impegnarmi troppo a cercare degli argomenti io), dall'altro, passare del tempo con loro e con altri parenti era sempre accompagnato da un velo d'imbarazzo, infatti tendevo a tacere o a conversare solo con i miei genitori, così non avrebbero potuto fare alcun commento.
appena entrati, i miei zii mi indicarono la via per la mia stanza, la quale mi ricordava un po' quella vecchia, ma sicuramente era priva di crepe sui muri. c'era un lungo specchio che mi avrebbe fatto comodo, sapevo che ci avrei passato tanto tempo di fronte siccome avevo portato l'intero armadio e mi sarebbe capitato di provare più di un abbinamento di capi prima di uscire, magari proprio quel pomeriggio.
infatti i miei zii avevano in programma di fare un giro del paesino, proprio come la prima volta - peccato che quella sera fossi troppo afflitto da cattivi pensieri, naturalmente a causa di orlando e della sua incostanza - e in particolare di visitare un paio di piccole chiese sulle quali mio zio francesco - che era una specie di giornalista-architetto - aveva intenzione di scrivere un articolo. poi avremmo cenato a casa.
quella prima giornata sembrava promettere bene, non avremmo fatto nulla di troppo elaborato o socialmente impegnativo, piuttosto mi spaventava la mattina seguente, in cui avremmo incontrato una vecchia amica dell'università di mio zio emanuele: una certa ester sinagra. chiaramente non potevo sapere chi e come fosse, più che altro mi metteva un po' a disagio l'idea di potermi sentire fuori posto, d'altronde ero un ospite, quindi avrebbe potuto pensare che fossi qualcosa come un intruso. ad ogni modo, ci avrei pensato la mattina dopo.
pranzammo con dei panini che avevamo preparato la sera prima, dato che eravamo troppo stanchi per cucinare e inoltre non avevamo nulla in casa. quel pomeriggio non ebbi la forza di sedermi fuori a quel balcone, né tantomeno di fare un giro turistico della villa o di mettermi a leggere il libro che avevo portato con me: nient'altro che una raccolta dei momenti principali dei sette volumi della recherche di proust, che avevo ormai terminato, a cura di un critico letterario; sapevo che non mi sarei effettivamente impegnato a leggere, quindi non portai nulla di troppo pesante, optai invece per qualcosa che già conoscevo.
ahimè dovetti portare con me anche i libri e i riassunti di letteratura italiana con l'obiettivo di studiare almeno un'ora al giorno per l'esame imminente. non ero il tipo che si prefissava di fare qualcosa e poi non rispettava l'impegno, piuttosto sarebbe stato difficile portarlo a termine a causa dei pomeriggi troppo caldi, ma non era nulla di inaspettato, dovevo abituarmi allo studio intensivo della sessione estiva.
riguardo ai coinquilini, anzi, i vicini, per fortuna essi sarebbero arrivati il mese dopo, quindi per un po' avrei potuto stare tranquillo sotto quel punto di vista.
dopo aver dormito per un po', i miei zii vennero a chiamarmi e mi dissero che saremmo usciti un po' prima per andare a prendere un caffè e mangiare qualcosa, poi avremmo fatto la spesa ed infine avremmo visitato quelle chiese. in effetti avevo molta fame, erano le quattro meno dieci e corsi a prepararmi, nonostante sapessi che ci avrei messo abbastanza. data questa consapevolezza - perché mi conoscevo molto bene - scelsi di indossare qualcosa di basico e che avevo già messo mille volte, uno di quegli outfit caratteristici, tipo quelli dei personaggi dei cartoni animati: i pantaloni neri di lino e la camicia nera di lino, i miei due capi preferiti che in qualche modo sembravano costituire una specie di divisa. come scarpe, tenni gli infradito perché indossare le scarpe con il troppo caldo mi rendeva insofferente.
era da tanto tempo che non mi sentivo così tranquillo, forse non mentiva chi diceva che la soluzione a tutto non sarebbe stata sempre stare con qualcuno, magari stare un po' da solo non era così noioso.
eppure per me era particolarmente difficile guardarmi attorno e riuscire a non essere catturato da nessuno sguardo, da nessun taglio di capelli, da nessun accostamento di indumenti o semplicemente da nessuna sagoma. anche se per qualche secondo, in qualche modo trovavo comunque qualcuno che mi colpisse.
preso il caffè e fatta la spesa, ci dirigemmo verso il centro del paesino, anche se, a dirla tutta, il centro costituiva praticamente il paesino tutto intero, quindi non impiegammo troppo tempo a visitarne ogni angolo.
mentre mio zio scattava delle fotografie ad una chiesa, mi ritrovai intrappolato in uno di quei momenti di trance nei quali ci si paralizza in modo totale, e si presta un'estrema ed insolita attenzione verso un dettaglio che, in uno stato di calma, non avrebbe alcuna importanza. e a tutti gli effetti non se ne coglie il senso se non dopo qualche tempo.
sedetti su un muretto e mi incantai, non nel vero senso della parola, dal momento che si trattava di una scena pressoché regolare, ad osservare un gruppo di scout che uscivano dalla chiesa (era appena terminata la messa). pensai che mia madre avrebbe sicuramente fabbricato sul momento il commento più adatto ad esprimere il suo disprezzo nei confronti degli scout; lei proprio non li sopportava, ogni qualvolta ne sentisse parlare non riusciva a tenersi per sé la propria opinione su di loro, a me, invece, non fregava più di tanto, anche perché non ne avevo mai conosciuto uno in carne ed ossa. dirò di più, prima di quel giorno non ne avevo nemmeno mai visto uno, chissà quanti me n'erano passati davanti in tutta la mia vita, e io non li avevo notati: quella sera fu diverso.
accadde piuttosto casualmente che il mio sguardo incrociasse quello di una di loro, non la scelsi di mia spontanea volontà, ci girammo nello stesso istante. non sono bravo con le descrizioni, o almeno, mi riescono meglio quando si tratta di persone che conosco personalmente, questo perché ho la possibilità di rilevare la correlazione tra la loro anima e il loro aspetto; se invece si tratta di sconosciuti, posso limitarmi a nominarne le caratteristiche principali. lei aveva i capelli ricci e biondi, né troppo lunghi né troppo corti, erano, anzi, abbastanza lunghi, dovevano esserlo dato che erano anche molto ricci. aveva poi gli occhi azzurri e portava un paio di occhiali rettangolari e argentei, il naso era un poco schiacciato e non tanto piccolo, le labbra erano disegnate perfettamente e, a differenza delle mie - sempre insensatamente pallide - erano rosse senza che avesse applicato alcun prodotto per tingerle, infine mi colpirono le sue guance, rotonde e, senza ombra di dubbio, davvero morbide. non mi soffermai attentamente sul suo corpo; non fu un caso, non lo facevo mai perché troppo impegnato ad analizzare il viso, notai ovviamente la divisa che, seppur canonica e monosemica, assumeva ai miei occhi un aspetto multiforme, quasi a nascondere una serie di strati che a primo impatto erano invisibili, aveva un fascino segreto che, però, i suoi compagni non presentavano. in lei, tutto aveva un proprio perchè, niente era fuori posto.

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