XII
una volta ho letto da qualche parte che tra i 19 e i 20 anni ha inizio una fase della vita in cui ci si rende conto, sempre di più, di essere uguali alla propria madre. da un giorno all'altro la psiche si mobilita per rimuovere dall'elenco di opzioni proprio quella che si era più sicuri di scegliere in futuro: "non diventare mai come mia mamma". una mattina ci si sveglia e le sue parole non sono più taglienti, si immagina piuttosto lei a diciannove anni che annuisce al cospetto di sua mamma perché non ha altra scelta se non quella di tacere e scrivere, sperando di perdere la propria crudele sensibilità intrappolandola fra le pagine di un'agenda di snoopy. proprio quella mattina mi alzai dal letto senza sapere che tutto ciò che sapevo fare, nello specifico, impedire alle persone di mettermi i piedi in testa - a volte in modo troppo estremizzato, ovvero senza curarmi di chi ci fosse dall'altro lato e se quest'ultimo avesse seriamente intenzione di ferirmi - me lo aveva insegnato lei, e se non l'aveva fatto simulando una lezione vera e propria, avevo assorbito quelle nozioni per osmosi, vivendo la mia vita al suo fianco, assistendo alle sue reazioni gigantesche, plateali, alle sue scenate che, un tempo, mi parevano esagerate e che ora potevo guardare senza problemi attraverso lo specchio di camera mia: avevo assimilato persino i suoi gesti, il suo modo di replicare e di ribattere senza pensare, avevo affilato la mia lama proprio come aveva fatto lei, forse proprio a vent'anni.
quel giorno sarebbe tornata angelica per le ripetizioni di francese, ma lei non sapeva ancora che l'appuntamento era stato annullato, da me. non avevo avuto alcuna intenzione di dirglielo per tempo, forse ero cattivo, ma mi faceva piacere pensare che potesse, anche lei, restare delusa, e avevo bisogno di leggere il disappunto nel suo volto, dato che non avrei mai potuto ricevere nessun altro tipo di soddisfazione da parte sua. nessuno al mondo avrebbe difeso quella mia scelta, chiunque l'avrebbe considerata infame e di cattivo gusto, tranne mia madre. non a caso, non mi ritenevo in dovere di niente e nei confronti di nessun altro al di fuori di lei. si fecero le dieci e, come di regola, sentii il campanello suonare - poiché quando aveva bisogno di qualcosa, non esitava ad essere puntuale come un orologio svizzero - aprii la porta e, come immaginavo, c'era proprio lei. sul momento non mi sentii più capace di parlare, si fece strada in me un pensiero che non avevo considerato neppure per un attimo, una voce nella mia testa disse, anche piuttosto maliziosamente: lasciati tutto alle spalle, se la mandi via, non la vedrai mai più. ma ormai ero grande e sapevo che, anche se l'avessi lasciata entrare, sarebbe tornata, sì, ma solo per le ripetizioni, non per me. o forse era l'esatto contrario: ero ancora troppo piccolo ed ingenuo e agivo in modo così disinvolto perché ero pieno di speranza che, se l'avessi mandata via, lei non avrebbe obbedito e sarebbe tornata, ogni giorno, a bussare alla mia porta, anche solo per chiedermi come stessi, sperando che cambiassi idea su di lei, lasciandosi lei tutto alle spalle, persino la persona che aveva amato per così tanto tempo. a quel punto sarebbe stato il mio turno di innamorarmi di qualcun altro, ma come ho già detto, la mia iterazione dei suoi comportamenti si sarebbe fermata lì: non mi sarei mai approfittato del suo stato di infatuazione per sorvolare il mio amore per qualcun altro. "non c'è bisogno di rimarcarlo sempre", non lo farei se solo non mi avessero attribuito tale responsabilità, ma ci arriveremo passo dopo passo.
non le diedi neppure il tempo di sorridermi, a tutta risposta - che risposta non era perché lei non aveva ancora parlato - le dissi, con l'intonazione più neutrale possibile, visto che a farle capire che ero arrabbiato le avrei solamente dato dell'importanza che non meritava, ma non senza voglia di ritirare quella frase e sostituirla con un'altra dal significato opposto: "non ti aiuterò più. non ti voglio vedere". quanto avrei voluto dirle, solo pochi secondi dopo: "anzi no, entra"; e invece aggiunsi, notando il suo sguardo confuso - anche se, per me, non era possibile che fosse realmente confusa, sapeva cosa stava facendo e sapeva bene di non essere minimamente interessata alla persona che aveva di fronte, in tutti i sensi, non solo romanticamente -: "...perché non ti fai aiutare da adriano? io non sono necessario. anche ester, se l'avesse conosciuto, ti avrebbe mandata da lui e non da me".
non sapevo bene cosa aspettarmi, ma certo era che la risposta che stavo per sentire non corrispondeva a ciò in cui speravo.
"non so cosa ti abbia fatto per meritare di essere trattata così, ma se è questo che vuoi, allora va bene"; non poteva essere. non era possibile che mi fossi illuso a tal punto da pretendere che una perfetta sconosciuta lottasse per me, almeno per la mia amicizia, la quale, a dirla tutta, neppure era mai iniziata. eppure mi sentii profondamente tradito, avevo bisogno di una dimostrazione che ciò che pensavo di lei non fosse veritiero, che si trattasse di una mia costruzione mentale e che in realtà lei non era come la dipingevano, e non era mai stata innamorata di adriano. ma in qualche modo tutto tornava, i fili della trama si intrecciavano facilmente e il mio cuore doleva sempre di più ad ogni passo che faceva per andare via. nei miei sogni si sarebbe girata per l'ultima volta, mi avrebbe guardato per qualche secondo proprio come fece il giorno del nostro primo incontro, se così lo vogliamo chiamare, sul suo viso avrei notato furtivamente un sorriso teso e lo avrei ricambiato, quasi a voler dire: "è meglio così, per entrambi", ma la dura verità era che per me non era meglio, mentre a lei - peggio - non faceva alcuna differenza che fossi presente o meno. avrei voluto che ci ripensasse, che ci fosse stato qualcosa a fermarla, una voce nella sua testa simile alla mia che le bisbigliasse: dagli una possibilità, e così sarebbe tornata indietro e mi avrebbe detto che sapeva ciò che io pensavo davvero, che sapeva che non lo intendevo davvero, che volevo solo che non seguisse il mio ordine, che mi dicesse: "no, io resto qui" e che sarebbe stata la mia condanna ancora per molto tempo. e invece la mia condanna sarebbe stata la sua assenza, dovevo farmene una ragione, potevo solo urlarle che avevo scherzato, che non ero seriamente convinto di ciò che le avevo appena detto, ma non ne ebbi il coraggio, mi vergognavo di risultare pretenzioso agli occhi di una persona che non mi doveva nulla, che non mi era neanche amica. lasciai che se ne andasse.
rimasi immobile per circa mezz'ora a fissare il punto in cui si situava l'ultima immagine di lei che riuscivo a ricordare, ci sarebbero voluti pochi minuti perché io dimenticassi del tutto la forma del suo corpo, i connotati del suo volto e soprattutto la sua voce, ciò che però mi sarebbe rimasto impresso nella memoria era un sentimento che si estendeva per l'intera città. mi chiedevo quanto più male avrebbe fatto quella situazione se io e lei fossimo mai stati qualcosa: amici, amici innamorati, fidanzati, fidanzati disinnamorati; invece non eravamo assolutamente niente ed io soffrivo così tanto a vederla andar via da me. non mi restava, a quel punto, che arrendermi all'idea che quel giorno non sarei mai stato felice e che i miei genitori se ne sarebbero accorti, nemmeno un miracolo mi avrebbe salvato dalla loro ira, ma forse essa non mi avrebbe mai ferito tanto quanto ciò che era appena accaduto. mi avrebbe fatto bene confrontarmi con qualcuno ma a dirla tutta non sapevo da dove iniziare, a chiunque non vivesse con la mia testa e le mie idee sarebbe stato impossibile comprendere appieno la follia che avevo commesso e, anzi, era probabile che sarei addirittura stato condannato dalla persona che avessi consultato.
era uno di quei momenti in cui per star bene mi sarebbe occorso, paradossalmente, niente di più brado della mia famiglia; era vero che avevo paura di rivedere i miei genitori, o meglio, che loro vedessero me in quello stato, ma era vero anche che c'erano i miei zii, di conseguenza non sarebbe stato facile per loro mettere in scena uno dei soliti episodi di linciaggio emotivo. ero il solo testimone - nonché la vittima - della loro cattiveria gratuita e, se durante quelle accese discussioni mi pareva quasi di odiarli e di voler scappare di casa una volta per tutte, quando ci riflettevo su in separata sede mi rendevo conto di quanto fossero lungimiranti, tanto che spesso sospettavo che da piccolo mi avessero installato una sorta di microchip sottopelle che permettesse loro di leggermi la mente e di sapere di me vita, morte e miracoli. o forse si trattava, molto più semplicemente, dell'invisibile cordone ombelicale che ancora mi legava a loro.
mentre mi impelagavo in circoli viziosi di pensieri sempre più grandi di me, sentii d'improvviso la porta alle mie spalle aprirsi: erano gli zii che mi annunciavano che i miei genitori erano fuori al cancello.
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champagne problems
Romanceil narratore (eugenio morel) trascorre, per la prima volta, l'estate nella nuova casa dei suoi zii, a sant'iriano. reduce di una storia d'amore unilaterale e grottesca, si prefigge di non ripetere gli stessi errori. il destino ha altri piani. [stori...