Ruggine e marmo

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TW: lutto.


Ogni volta, nel tragitto dal cimitero a casa, mi sento confusa. Vuota e preoccupata che la mia vita sia più vuota di me.
Quando parcheggio la macchina nel vialetto ed entro in casa, mamma non mi chiede più cos'ho, mi accarezza la spalla e mi sussurra, "Se ne vanno sempre i migliori".
Ma quali migliori, eri proprio una vecchia canaglia tu. Baravi a carte e al biliardino, fumavi come un turco e ridevi sotto i baffi quando cadevano i bambini. Non eri in grado di consolarmi quando piangevo, urlavi e calciavi i mobili quando eri nervoso e parcheggiavi anche sulle strisce gialle.
Poi se proprio rientri in quella cerchia dei migliori e dovevi necessariamente andartene, potevi salutare, lasciare un biglietto, potevi cambiare città.
Ma se mi fermo troppo, nel silenzio della cucina, ad ascoltare solo quel deprimente e logorante ticchettio delle lancette, che più che scandire il tempo sembrano contare quanto me ne resta, finisce che m'ammazzo.

È una vita monotona la mia. Mi sono laureata e ora lavoro con i marmocchi delle medie. Tra la puzza di ormoni e gli schiaffi che gli tirerei arrivo sempre allo stremo, ma ogni tanto, quando fanno venir fuori i loro tratti ancora bambineschi, camuffati dall'atteggiamento adulto, non riesco a non volergli bene. Mi ricordano tutti qualcosa di te, eri talmente lunatico che un po' della tua personalità me la ritrovo ovunque.
Mamma sta da me la mattina, si occupa di Carlo che appena sa camminare.
Giacomo ultimamente fa i turni di notte, ci vediamo poco, viviamo poco. Lo amo, non fraintendermi, ma tu non passi mai. L'amore che ho provato per te non è passato o finito in modo naturale, è stato strappato via. Non funziona così l'amore.
Non posso fermarmi a pensarti.
Devo fare.
Fare cose.
Cose da fare.
Quando mi rendo conto di questo, mi rendo conto anche di quanto noi esseri umani siamo tutti uguali.
Ci preoccupiamo di colmare la nostra vita di impegni, ci iscriviamo a corsi di cucina di cui non ce ne può fregar di meno, leggiamo libri distanti da noi per non ammetterci e leggiamo libri che sembrano fotocopie dei pensieri di un'intera esistenza per sentirci silenziosamente. Ascoltiamo musica sul bus, guardiamo film e telegiornali durante i pasti. Per non pensare. Per non sentire quel tun-tun-tun del cervello. Un cervello martellante e laborioso.

Ci spaventiamo del silenzio e del buio, perché nel vuoto esplode il tutto. Esplodono i sentimenti, le emozioni, le voglie e il dolore.
Ammettere l'amore e l'odio è peggio che amare e odiare senza dirlo.
Riconoscere gli errori e i meriti è da persone pretenziose per una mente sagomata dalla scatola cranica.
I pensieri fanno paura.
Fa paura il cibo, fa paura la fame. Fa paura la morte e fanno paura la nascita e l'adolescenza.
Fa paura la droga e fa paura l'astinenza, la solitudine come la folla.
Fa paura guidare, con la nebbia, perché una macchina nella foschia è una passeggiata da soli nel buio di una casa non nostra.
Fa paura amare e, guarda caso, non fa mai paura essere amati, desiderati o ammirati. Perché fa paura solo il nostro cuore che batte.
Non sapere terrorizza ed essere messi a nudo è peggio che scoprire un tradimento.

Ci fanno paura tante cose, tantissime. Ne avevo tanta paura.
Di ammettere. Di guardare. Avevo anche paura di finire il processo di autocommiserazione tipico del non voler affrontare i problemi. Nelle coccole delle scuse siamo protetti.
Ne avevo tanta paura quando ho accettato che ormai eri morto.
Ma tu ne avevi? Avevi le mie stesse paure? Sì, credo di sì.
Fa paura la morte? Fa più paura delle paure terrene? È più brutto morire o sentirsi morti?
Va beh, che conta ormai. Sei morto.
La tua lapide è un punto fermo. Un punto che nella mia vita non volevo mettere.
Ero pronta a fermare quella relazione fatta di bugie, mani e bugiarde carezze. Determinata a concludere gli studi in una scuola infelice, forse avrei avuto anche il coraggio di scendere in piazza per manifestare qualcosa, qualunque cosa. Sarei uscita da ogni mia zona di comfort, avrei costruito un altro muro a Berlino solo per buttarlo giù, ma tu non eri un punto. Non eri la fine di un capitolo e nemmeno di una frase.
Dovevi essere parte presente di tutto il romanzo.
"Se ne vanno via sempre i migliori", "quando raccogli un fiore prendi quello più bello", "salutava sempre". Ma tu non salutavi mai.
Però ci vivo, riesco a fare abbastanza cose per non pensarci, per non pensarti. 

T O R N A D ODove le storie prendono vita. Scoprilo ora