17- 𝙑𝙤𝙞𝙡à, 𝙦𝙪𝙞 𝙟𝙚 𝙨𝙪𝙞𝙨 - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢

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A piccoli passi.

Era diventato il mio mantra. Ogni giorno, dopo la Elly-sveglia, me lo ripetevo. Ogni giorno, chiedevo a me stessa un passetto in più. Ogni giorno, sentivo che le cose iniziavano ad andare per il verso giusto. Sicuramente in un modo diverso da come avevo pianificato nei sogni di una vita intera, ma iniziavo ad ambientarmi nell'avversità della sorte. Perché mi era stata data l'opportunità di conoscere delle amiche sincere, che mi erano vicine non per comodo, ma perché tenevano realmente a me, dimostrandolo ogni singolo giorno.

Ero arrivata al Fairwinds con un corpo che senza pattini ai piedi non serviva a niente. In quel barattolo di inutilità, ci avevo messo la gioia di Elly, l'altruismo di Lisa, l'empatia delle infermiere, la dolcezza della Cameron, la severità del dottor Greg e anche l'antipatia di Emily, che mi parlava a denti stretti solo se necessario. A poco a poco avevano iniziato a riempirlo anche con i miei piccoli, timidi, momenti di felicità. Come nel pattinaggio, la vittoria di ognuna di noi era un lavoro di squadra, e sapevo che da quella clinica ne sarei uscita senza nessuna medaglia al collo, ma con il trofeo della vita in mano. Lo volevo più di qualsiasi altra cosa, anche se non avrei potuto metterlo nella vetrina all'ingresso di casa a Daytona.

Mi ci era voluta qualche settimana per riuscire a finire una porzione di pasta all'olio. Negli ultimi quindici giorni di ottobre, nei pasti stabiliti con il dottor Greg provavo a mangiare la pasta che tanto mi terrorizzava. Si era dimostrato comprensivo: non ci eravamo dati limiti temporali, a patto che mi impegnassi. Al primo tentativo ero rimasta a fissare il piatto sperando che qualcuno me lo portasse via, o che si materializzasse in una tavola in cui non ero presente. Prova dopo prova, avevo aumentato le forchettate di pasta, riscoprendone il gusto quasi dolce e la consistenza morbida ed elastica. Non mi infastidiva l'olio d'oliva, che seppur poco, tante mie compagne cercavano di asciugare in ogni modo senza farsi vedere da Greg. Strofinavano il boccone nel tovagliolo, alcune anche nei vestiti. Altre invece, muovevano la forchetta con piccoli scatti per cercare di far cadere le minuscole gocce di olio, prima di mangiare il boccone.

A spaventarmi, nella pasta, non era tanto la quantità calorica quanto la percentuale di carboidrati presente in una porzione. Prima di escluderla dalla mia alimentazione, avevo iniziato a sentirla ammassarsi nello stomaco, un'enorme palla difficilissima da smaltire che mi causava un gonfiore immediatamente visibile allo specchio. Mi metteva così tanto a disagio che la eliminai completamente dalla mia alimentazione, così come la pizza. Odiavo così tanto le conseguenze sul mio corpo di quei piatti tanto amati dalla maggior parte delle persone, che non volli più toccarli per mesi. 

Ero consapevole di quanto quella decisione fosse sbagliata, ma il mostro mi accolse tra le sue braccia con fare materno. Solo lì, al Fairwinds, scoprii che quelle braccia per me rassicuranti erano quanto di più deviante ci fosse. Che la privazione non era la migliore amica del controllo, perché la privazione era stata per me quell'amica tossica che aveva aspirato tutte le mie paure per poi soffiarle in un palloncino. E quando provavo a concedermi qualcosa, quel palloncino me lo faceva scoppiare vicino all'orecchio, ricordandomi che avevo bisogno di lei per stare bene. E' necessario per raggiungere la perfezione, ci ripetevamo.

Dopo lo scoppio iniziale, sotto lo sguardo attento ed orgoglioso di Greg, avevo affrontato quella paura. Una paura dettata dal mostro della malattia che stavo fronteggiando con quanto più coraggio avessi, ma priva di qualsiasi reale fondamento. Imponevo a me stessa di non fermarmi a cercare di calcolare le calorie di ogni pasto, di non pesare il cibo sollevando il piatto per paragonarlo al peso dei pasti precedenti attraverso la memoria muscolare. Mi costava una fatica allucinante, ma riuscivo a dirottare i pensieri malati verso lidi fatti di corsie in cemento levigato e profumo di salsedine.

In quelle settimane continuai ad andare al molo nelle ore in cui le ragazze andavano in piscina con HaileyPaloInCulo. Venivo accompagnata lì anche la domenica, mentre le altre ricevevano visite dai familiari che, a differenza mia, potevano vantare di avere al loro fianco. Quelle poche ore di libertà le usavo per riflettere, per fare il punto della mia situazione, per cercare nuove tematiche da portare nella stanza della Cameron. Non incrociai più Jordan. Mi aveva lasciata vicino alla macchina di Lorelai facendomi promettere che avrei pensato alla sua proposta.

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