𝕋𝕣𝕖

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Bellezza non sono i capelli
lunghi, le gambe magre, la
pelle abbronzata e i denti perfetti. Fidatevi di me.
Bellezza è il viso di chi ha
pianto e ora sorride

-Emma Watson-

La domanda di Cole continuò a rimbombare nella mia testa per la successiva ora; ero rimasta seduta al tavolo, fissando il punto della strada in cui era sparito di corsa. Più ci pensavo, più mi rendevo conto che non riuscivo a capire né lui, né me. Il motivo per cui volesse rivedermi non lo trovavo in nessun mio comportamento e il fatto che fossi rimasta imbambolata a fissarlo e che il suo complimento mi avesse provocato una strana sensazione mi facevano arrabbiare con me stessa.

Forse, mi stava prendendo in giro e, inconsciamente, me ne ero resa conto e il mio corpo mi stava inviando dei segnali. Magari, incontrarlo di nuovo mi avrebbe chiarito i miei dubbi.

Oppure ne creerà altri.

Venni salvata dal continuo ragionare dall'arrivo del camion con dentro le mie cose. Non lo aspettavo prima dell'indomani, ma fui felice di avere qualcosa da fare.

«La aiuto a portare dentro gli scatoloni» mi disse l'uomo non appena lo raggiunsi accanto ai portelloni del camion.

Trasportammo i cinque scatoloni fino in salotto, poi in due portammo l'ultimo, il più lungo, in garage. Quando lui se ne fu andato, fu proprio il primo che aprii. Cercai di togliere il sacco da boxe da lì dentro senza fare troppi danni, ma l'impresa si rivelò più difficile del previsto e presto mi trovai ad imprecare, sbuffando innervosita.

Dopo un paio di minuti e dopo lunghi respiri per evitare di perdere la calma, riuscii a spingere con il piede lo scatolone, che andò a sbattere contro il muro, e ad appendere le catene al gancio che avevo fatto installare sul soffitto.

Avevo disperatamente voglia di allenarmi, ma dovevo prima sistemare tutte le cose che ancora giacevano negli scatoloni, così andai in salotto e li svuotai uno ad uno.

Il primo conteneva tutti i miei libri, che riposi sugli scaffali dividendoli per genere; avevo sempre amato i fantasy e i polizieschi, ma un posto speciale nel mio cuore lo avrebbero sempre avuto i grandi classici della letteratura.

Nel secondo e nel terzo c'erano tutti gli utensili da cucina, alcune cornici e dei soprammobili. Nel quarto i vestiti invernali, un paio di coperte e un cuscino da divano.

Il quinto, sebbene fosse il più piccolo, conteneva le cose per me più preziose. I pochi oggetti che mi erano appartenuti in orfanotrofio erano riposti con cura in una scatola alta venti centimetri e lunga quaranta. Fu l'ultima che presi in mano e portai nella mia stanza, dove mi sedetti sul letto con la scatola sulle gambe

Estrassi una polaroid che ritraeva me e Tiffany all'età di quattordici anni, il giorno in cui lei se ne sarebbe andata con la sua nuova famiglia. In quel momento, ero stata ritratta con un sorriso, mentre nascondevo le lacrime.

Avevo imparato a non piangere, nemmeno di nascosto. Cedere al dolore e alla tristezza non sarebbe mai servito a nulla, lo avevo imparato a mie spese. A volte, era meglio per me spegnere semplicemente le mie emozioni.

Misi la foto nel cassetto, insieme a un piccolo diario che avevo scritto quando avevo dieci anni e a una lettera che mi scrisse Tiffany durante il viaggio in Italia che aveva fatto l'estate in cui era stata adottata.

Sul comodino appoggiai una vecchia copia de "Il piccolo principe". Era stato il primo libro che avevo letto e al mio sedicesimo compleanno Chloe mi aveva regalato quel volume che era appartenuto a sua madre. Lei lavorava in orfanotrofio ed era l'unica che veramente ci voleva bene; quando le avevo detto di voler un modo per fuggire da quella prigione con i muri bianco panna, lei mi aveva portato quel libro. Da quel giorno in poi, aveva iniziato a darmene sempre uno diverso, di nascosto.

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