Alle prime carezze della luce apro gli occhi e di nuovo il sapore acre del dubbio atroce mi scende giù doloroso per la gola riarsa. Il mantello ormai nero d'orrori, ancora intriso delle piogge infernali che si abbattono sul sacro, maledetto terreno di Zteratoth, raccoglie anche il mio vomito bilioso chiazzato di sangue. Non mangio da sempre, penitente rinchiuso in questa angusta capsula d'acciaio, spio il mondo cangiante da spiragli aperti nella mia mostruosità, come se ancora dentro la carne, e poi dentro la bestia che nelle viscere ruggisce indomita, un essere umano misero respiri a un soffio dal collasso.
Rebis ai comandi lancia più forte il triciclo su per una duna di calcare. Del suo volto mi resta solo l'impressione della notte infinita in cui ho sterminato l'umanità, quando sfinito, dopo aver attraversato tutti gli strati dell'abisso per mutarlo da ultimo asilo dei dormienti in tetra necropoli, ho abbandonato il frammento stellare e il mio corpo pregno di radiazioni sul pavimento lustro del tenebroso atrio d'ingresso del tempio del sapere. Nella luminescenza vibrante di Zteratoth l'espressione austera di Rebis mi ha visitato, aleggiando su di me un attimo prima che il buio mi penetrasse il cranio.
Ancora ritorno a quel magro conforto dopo aver compiuto un delitto spropositato anche per un mostro che di umano ha solo i ricordi, e forse neppure quelli. Era rimasta lì, nel silenzio arcano dissacrato solo dalla tempesta che ululava perenne scrosciando fin sulla grande scalinata dell'oloarchivio, pronta a raccogliere queste indegne membra per l'ennesima volta, a trascinarmi verso una nuova tappa della mia follia.
Le larghe ruote del triciclo mordono e sollevano la candida polvere dell'estinzione, su uno sconfinato sedimento di vita fossile sfrecciamo solitari, con le orecchie annoiate dal ronzio del motore elettrico e nessuna parola capace di riavvicinarci.
È quando mi ha mandato a baciare il metallo, caricato sul veicolo come un cadavere, che la coscienza è schioccata come un lampo e per poco mi sono riavuto. Rebis stava già richiudendo lo sportello quando un mio lamento l'ha fermata. Non so come sono riuscito a cavare dalla borsa la bussola, ma mi è subito sfuggita di mano. Non aveva importanza, molto prima avevo scavato nella cronologia del mio pellegrinaggio eterno per scovare la verità che la memoria si ostinava a negarmi, ma forse un sogno mi aveva restituito. Il punto che ammiccava dal quadrante era più che una conferma, un invito insistente a procedere nella ricerca. Rebis aveva raccolto la bussola e considerato la destinazione. Poi senza dire nulla aveva chiuso la cella e si era seduta ai comandi. Non ho udito che l'avvio del motore, già i miei sensi si spegnevano uno a uno.
Quel che pretendo da me stesso è già di per sé una violazione del codice inscritto nella mia esistenza, il sommo tradimento della mia missione e del mio destino, ancor più grave per le condizioni in cui verso. Con la morte che quasi corre al mio passo oso deviare, elemosinare tempo al grande progetto di redenzione del mondo per un miraggio che mi danza dinanzi sfuggente, adesca il germe egoista e umano, troppo umano per non tremare ancora, a un passo dal fine grandioso, dalla ragione di ogni mia sofferenza. Non mi basta, ho altri demoni da provocare prima dell'atto finale, questo mi dico e mi ripeto, e nella tenebra del mio cuore riapro piaghe dimenticate, in cui il dubbio scivola come catrame caustico e brucia e corrode le verità che mi tengono insieme, suture dell'anima mia miserabile, impigliata in quest'amaro fato, dolce pastura per mostri.
La nostra stella allo zenit picchia senza offendere, la sua luce smorzata da strati di nubi cianotiche, non intiepidisce neppure l'aria secca e ferma della sterminata desolazione, bianca di sale, calcare e morte. Mi stacco dalla fessura da cui spio il mondo e, rannicchiato sul fondo della cella, prendo la borraccia ammaccata. L'acqua piovana ha ormai dimenticato il gelo di Zteratoth, solo io lo trattengo nelle ossa, sotto la carne arsa dalle radiazioni.
Il dolore ha urlato a lungo, quando ancora la pioggia batteva pesante su questo guscio d'acciaio, fustigato da raffiche che forzavano la nostra rotta, e l'agonia mi trascinava spietata di nuovo per le tenebre che ho dissacrato: da perverso psicopompo ho risvegliato gli innocenti alla morte, moltitudini sacrificate prima che un battito, un respiro potessero rompere il loro sonno di ghiaccio. Il mio nero bottino cresceva con l'orrore inespiabile, ingrassato dalla vita variegata che gli davo in pasto, vecchi e bambini, donne dalla bellezza afflitta e uomini affamati di vigore.
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14. Paxalba
Science FictionAnche a rischio di mettere a repentaglio la sua fatale missione, il Nomade non sa resistere al richiamo di una verità sepolta che subdola lo ha visitato in sogno. Arriverà la realtà a confermare l'incubo?