Chapter 3 - dream in a dream

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2067

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2067. Cinque anni prima, in un vecchio casolare.

Muffa ovunque, propagata lungo tutte le pareti, come una costellazione macabra, scura, che mangiava l'intonaco, il respiro delle persone. Muffa che cresceva, giorno dopo giorno, espandendosi come la loro rabbia, il loro rancore. Raggruppata sul soffitto, dovuta a una infiltrazione, dispersa sul muro sgretolato come raggi di un sole ormai inesistente, che da tempo non si affacciava a Seoul.

Laboratori immensi, in cui terreni artificiali vennero creati per coltivare frutta e verdura, rendendola ancora meno accessibile alla popolazione, per il prezzo esorbitante. Laboratori in cui una forte luce artificiale illuminava la stanza, facendo crescere quelle colture, facendole credere che quello fosse il vero Sole, ciò di cui avessero bisogno, la vita.

Quella luce era talmente abbagliante che gli scienziati, ricoperti da camici bianchi, con i capelli legati e i guanti attorno alle mani, finivano per portare occhiali protettivi dopo i recenti casi di miopia e cecità. Quei neon abbaglianti non erano letali, no, eppure portavano le persone a non vedere più, gradualmente, per tutto il resto della loro vita. Eppure di una cosa siamo certi, da molto tempo la popolazione non vedeva più, in modo metaforico. Ignoravano il cambiamento climatico, l'inquinamento, la falsità di quella nuova società eretta nell'oscurità. Si sedevano a tavola, composti, con le schiene dritte, le bacchette tra il pollice e l'indice e mangiavano cibo da laboratorio, perfettamente artificiale, perché quella era diventata la nuova normalità.

Eppure in quel luogo governato dalla muffa, questo tipo di cibo era ben più che un lusso.

L'Apeum, così lo chiameremo per tutto questo racconto, non era altro che un complesso edificio strutturato su due piani, di cui uno interrato, dall'aspetto grigio e del tutto decadente.

Era situato ormai nella periferia di Seoul, a Gunpo, dopo la migrazione di massa dovuta allo smog letale e alla carenza di cibo, dove una serie di industrie vennero lasciate in abbandono. Lì iniziò a vivere il più grande dolore del mondo, un alveare incasellato in cui uno sciame di api, serventi, impollinavano a dovere. Non si trattava certo di insetti, questo dobbiamo riconoscerlo, bensì di uomini che stavano formando le più esperte criminali, seguendo schemi rigidi e severi.

Entrare all'Apeum era del tutto difficile, ma la grande maggioranza delle ragazze imprigionate non aveva avuto altra scelta. O quello o la morte. Ma forse, se solo potessero tornare indietro, parte di loro, se non tutte loro, avrebbe sicuramente scelto la seconda opzione.

Ciò che accadde nell'Apeum rimase un mistero, fino a quando non venne liberato nel 2067, cinque anni prima quanto segue la linea temporale di questa storia.

Il centro di polizia di Seoul, nello specifico il servizio centrale anticrimine, dopo una lunga indagine in concomitanza dell'unità di analisi reclutamento, venne a conoscenza dell'esatto luogo in cui il vero male stava accadendo. Si trattò di una chiamata intercettata, bastò questo, dopo una lunga sorveglianza telefonica e individuale, di soggetti che ne facevano parte.

E nell'unità analisi reclutamento iniziò la sua carriera Doyoung. Questo non era altro che un nuovo organo adottato per reprime e sradicare dal terreno la nascita di questa moltitudine di fazioni, incentrate sul formare criminali perfetti per colpi di stato e approvigionamento mafioso.

Doyoung, ancora abbastanza acerbo dopo l'addestramento e dopo aver passato un anno al servizio della polizia locale, decise di trasferirsi in tale unità per un bene comune. Avrebbe potuto finalmente inchiodare i colpevoli, aiutando Seoul ad uscire dalle tenebre, fermando così riscatti in cambio di denaro, uccisioni di politici, ma soprattutto avrebbe aiutato a far uscire quelle ragazze del mondo crudo della violenza.

Pensò fosse tutto lì, a portata di mano, una semplice pastiglia per mettere fine al dolore, debellare il virus, eppure niente fu così.

Doyoung fu il primo ad entrare nel casolare, insieme ad altri suoi colleghi, coperto da giubbotti anti proiettile, con la sua pistola personale ben impugnata in mano. I suoi occhi erano attenti, mai si sarebbe dimenticato di quella visione, di quegli spazi lugubri, sudici, umidi, dall'odore nauseante, pieni di pozze d'acqua stagnante, di muffa corporea. Non si sarebbe mai dimenticato dei loro corpi, segnati dai lividi, dei loro capelli lunghi neri. Sembravano tutte uguali, erano formate per esserlo. Semplici pedine, senza una personalità, dedite unicamente al dolore.

E finalmente quando tale casolare fu chiuso, un senso di vuoto rimase persistente nel cuore di Doyoung. Fu del tutto atroce per il ragazzo, incapace di mettere a tacere la rabbia che ribolliva nelle sue vene, incapace di trovare la pace dentro se stesso.

Così scavò ancora più a fondo, arrivando al limite, cercando qualcosa che potesse sopprimere la fame, quella vorace incontentezza, di non fare mai abbastanza per debellare il male. E solo grazie a Minjun trovò la sua strada come investigatore nella sezione crimini violenti.

Erano passati cinque anni da quel giorno, lei non c'era più già da diverso tempo. Doyoung non avrebbe potuto vederla, non avrebbe potuto riconoscerla nei suoi sogni. Eppure parte della sua vita l'aveva vissuta lì, fino al compimento dei suoi diciotto anni.

E lei, quando chiudeva gli occhi, anche solo per estraniarsi dal mondo e riposare, poteva sentire nuovamente quella ninnananna, quella musica leggera, quasi spettrale che spesso cantava alle altre bambine, troppo piccole per vivere in quell'ambiente crudele, ma abbastanza grandi per loro per impugnare un'arma. Rimboccava loro le coperte e infine si sedeva sui loro letti, finché il suo corpo gracile non finiva per appiattire una porzione della coperta, tanto da farla sentire sprofondare. E lì cantava a bassa voce quella melodia, fin quando loro non chiudevano gli occhi e non entravano nel mondo dei sogni. Solo in quel momento si alzava, faceva dieci passi ed entrava sotto le lenzuola, nel suo letto, ricercando il calore unicamente nel suo corpo.

I capelli neri le accarezzavano le spalle, la punta delle sue orecchie era come ghiaccio, come neve. Una tormenta si abbatteva nel suo cuore, solamente quando era notte, solamente quando si ritrovava a fare i conti con se stessa.

Quello sarebbe stato uno dei suoi ultimi giorni lì ad Apeum, poi sarebbe uscita nel mondo reale, diventando una mietitrice di vittime.

E anche quella notte riuscì ad addormentarsi non appena finì di pensare, finendo per sognare visioni distopiche, forse lontane del tempo, forse ambientate nel presente, false o veritiere che siano, a lei poco importava. Vedeva sempre il suo volto pallido, i suoi capelli corti, ben pettinati, in parte alla sua fronte. Non parlava, non aveva nulla da dire forse, eppure i suoi occhi parlavano da sé, per lui, così neri e profondi da riflettere tutto ciò che gli gravitava attorno.

Sognava sempre lui, unicamente lui, eppure non lo conosceva, non aveva minimamente idea di chi fosse.

Ma se solo le avessero detto che un giorno lo avrebbe conosciuto, lei avrebbe ritrovato la voglia di ridere, prendendosi gioco del destino.

Ma se solo le avessero detto che un giorno lo avrebbe conosciuto, lei avrebbe ritrovato la voglia di ridere, prendendosi gioco del destino

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