10. Processo per

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Tre giorni dopo ero incollata a una triste sedia in truciolato giallino che mi ricordava quella su cui sedevo ogni giorno al mio banchetto delle elementari e, appena dieci minuti dopo il mio prendervi posto, era già abbondantemente sudata e scivolosa proprio come quella.

Fuori dalla finestra alla mia destra si intravedeva una linea discendente del pendio ripido del Fuji su un lato, e le chiome calde di foglie autunnali dall'altro.

Il tempo era incerto, come il mio stato d'animo.

Davanti a me si erano sistemati tre rappresentanti dell'azienda, allineati come cani randagi di fronte a una ciotola di succulenti frattaglie: uno era il mio diretto supervisor, mentre gli altri due portavano spillati sulla divisa altisonanti titoli nel contesto delle "Human Resources".

Avevo sempre pensato che coloro che maneggiano le cosiddette "risorse umane" siano paradossalmente gli stessi che più di tutti nel mondo corporate debbano rinunciare alla propria umanità e scaricarsela sotto alle scarpe, ma quel pomeriggio i loro denti e le loro unghie mi sembravano ancor più animalesche di quanto avrei mai potuto prevedere.

«Dunque...» un soldatino HR dagli occhiali spessi come fette di limone e la voce più melliflua che avessi mai sentito cominciò la disamina. «Lei ha accusato il signor Rizzo Alessandro di aggressione» ripeté asetticamente quanto riportato sul foglio steso di fronte al suo trono, come un fulgido tappeto da passerella che lo conduceva dritto alla mia gola.

La mia testa annuì per me prima ancora che lo decidessi, per sollevarmi dall'incarico di formulare una risposta verbale.

Il delegato proseguì: «Lei ha affermato di essersi trovata ad aprire la porta mentre il suo collega passava per il corridoio, e da lì l'avrebbe spinta in camera per tentare un intercorso sessuale» a quel punto si leccò le labbra quasi come se lo stesse vedendo passare in diapositiva proiettata sulle sue cornee, il momento raccontato, nel segreto della sua cameretta con un pacco di Kleenex pronto all'uso.

«È quello che mi ha fatto intendere a parole... e negli atti» confermai, e ricapitolai per l'ennesima volta anche come mi avesse messo le mani addosso e la lingua in bocca.

«L'accusato afferma che lei gli si era proposta sull'uscio della porta, ma poi ha cambiato idea quando lui è entrato in camera, e questo lo ha indisposto,» intervenne l'altro rappresentante, «non crede di essere stata poco chiara nella sua esposizione?»

Un mio sopracciglio non riuscì a trattenersi dallo scoccare in alto come una freccia. «No, perché ciò che afferma "l'accusato" non corrisponde a quello che è realmente successo.»

Mentre i due compari si lanciavano un'occhiata al limite del derisorio, il mio supervisor sbottò: «Perché ha aperto la porta della sua stanza a quell'ora, se non per far entrare il signor Rizzo che attendeva fuori?»

Già, perché? Nella mia prima bozza di denuncia non avevo fatto menzione del dettaglio che qualcuno che non doveva essere lì stesse uscendo dalla mia camera in quel momento, e perciò la porta era aperta.

Tentennai. L'espressione allusiva sulla faccia dei tre si fece sempre più marcata.

«Ho ricevuto la visita di un amico, una breve visita per... consegnarmi della roba che avevo dimenticato a Tokyo» cedetti alla tentazione di intessere un elaborato ricamo di mezze verità pur di evitare altri scrutini. «Mentre lui andava via, il signor Rizzo ci ha intercettati in corridoio.»

Un brillio malizioso sfrigolò negli occhi nerissimi del delegato che ora stringeva il rapporto tra le mani come fosse un prezioso oggetto da collezione. «È quello che ha riportato anche il signor Rizzo. C'era una persona non autorizzata in camera sua in piena notte, e lei ha mancato di farne rapporto. Perché dovremmo credere alla sua versione se ha evidenti lacune?»

Ali d'acciaio e taiyaki di mezzanotteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora