Prologo.

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Undici anni prima.

«Testa alta e petto infuori, tesoro. Non vogliamo vanificare in pochi attimi il lavoro di Pierre, giusto?» I tacchi di mia madre picchiettarono sul pavimento grigio della sala da pranzo, un passo dopo l'altro, fino a raggiungermi.

Li guardai, seguendo il loro cammino, mentre con la faccia rivolta al pavimento ignorai il suo sguardo.
Senza la minima discrezione osservò i lividi evidenti sulle mie braccia spoglie, esposte senza la camicetta bianca che avevo indossato a scuola e che ora giaceva accanto a me, ma non disse una parola.

Non che mi aspettassi un minimo conforto da parte sua.
Frequentavo ormai il secondo anno di scuola elementare in uno degli istituti più prestigiosi della zona: la classe era cambiata, alcuni compagni pure, ma le mie ferite rimanevano sempre le stesse.
Così come le sue reazioni.
«Sì, mamma.» Le sue esili mani si poggiarono sulle mie spalle, forzando quella posizione da lei desiderata.
La lasciai fare, mentre il mio viso si contraeva al suo tocco poco delicato.

«La sicurezza è la tua migliore amica, è ciò che ti permette di andare avanti e di avere successo in questo mondo, lo capisci, non è vero?» Non potei far altro se non annuire, mentre lei si inginocchiava per arrivare alla mia altezza.
«Bene. Quindi convinciti. Sei nel luogo giusto al momento giusto, tutti i giorni della tua vita. È l'unica verità a cui fare affidamento.»

Undici anni dopo.

Le parole di mia madre rimbombarono insistentemente nella mia testa, come un promemoria ormai dimenticato che si affrettava a tormentarmi, ma sembrarono solo frasi sconnesse.
Non sapevo se fosse colpa loro o delle lacrime che -versate- mi bagnavano le guance piene, ma il dolore che mi colpì le tempie era insopportabile.
Col volto chino cercai di darmi forza, attraversando la villa enorme in cui abitavamo solo in tre, stringendo al petto una misera scatola per scarpe bianca, come se fosse l'oggetto a me più caro, al di là di tutti i miei averi.

Non mi sentii nel luogo giusto in quel momento, a dir la verità.
Tutto attorno a me sembrava avvolto in un buio vuoto ed opprimente.
Era impossibile farci l'abitudine.
I sentimenti, spariti all'improvviso, avevano lasciato spazio solo al turbamento e, ad accompagnarlo, un'apparente facciata di desiderabile tranquillità.

Ma non eravamo felici.
Convivevamo con macigni grandi e pesanti, coscienti di non poter porre rimedio all'irreparabile, trattenendo una frustrazione che ci mangiava da dentro, consumando ogni parte di noi.

I mobili dai costi esorbitanti e le foto, accuratamente circondate da cornici dorate e riposte con ordine su ogni superficie, non avrebbero mai potuto compensare tanta miseria.
La mia casa, con le sue stanze arredate con eleganze e numerosi dettagli, nascondeva una povertà insidiosa, non visibile ad occhio nudo, ma ciononostante palpabile ed incontestabile.

Era per questo motivo che immaginavo sempre i vicini intenti ad abbandonare la nostra porta d'ingresso con un'espressione di sollievo stampata in faccia, dopo un pomeriggio intero passato in compagnia di Mister e Miss Cage, tra salatini e caffè.
Ma dopotutto, come biasimarli?
I miei genitori erano ormai preceduti dalla loro fama, eppure era proprio quella a renderli così appetibili.
Insopportabili, estenuanti, deprimenti ma soprattutto ricchi ed influenti.
La casa li rispecchiava in tutto.
Erano circondati da assetati di potere, di gente fatta della loro stessa pasta ed, infondo, se lo meritavano.

Sperai di non svegliarli, mentre i miei passi pesanti iniziarono a rieccheggiare nel silenzio della notte, tra le mura di quei corridoi che parevano restringersi sempre più intorno a me, con l'intenzione d'intrappolarmi.
Scendevo le scale a tutta velocità, ignorando la sensazione delle mie gambe traballanti ed il fiato corto: vedevo l'uscita e ciò significava solo una cosa.
Avrei potuto finalmente respirare.

Champagne And Chains.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora