Capitolo 2

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Merisi scivolava in mezzo alla folla sfruttando in scioltezza gli spazi che si creavano a intervalli irregolari tra le persone che affollavano il mercato in cerca di affari o divertimento. Nato inizialmente per la vendita del pesce, nel corso dell'ultimo decennio Merca era cresciuto in importanza e dimensioni fino a surclassare il più famoso Bakaara di Mogadiscio, anche se i segni della crisi erano evidenti anche lì, negli spazi vuoti lasciati da coloro che avevano mollato e se n'erano andati lontano, e che nessun altro aveva riempito.

A Merca si trovava qualsiasi articolo senza troppa fatica, sia legale che di dubbia provenienza. Alle otto del mattino le sue strade, affollate al punto da essere già quasi impraticabili, davano l'illusione che tutto fosse normale. Il vociare di commercianti e compratori era assordante: il posto ideale per seminare qualcuno, o per dare l'impressione di volerlo fare.

Banchi di prodotti tradizionali come vasi di terracotta, funi di fibre intrecciate, stuoie coloratissime intessute direttamente in strada e pelli essiccate al sole si alternavano a quelli di elettronica di consumo, generi alimentari locali e di importazione, foglie di Khat da masticare, farmaci, armi da taglio e ricordini per turisti che spacciavano medaglie di Vittorio Emanuele III evidentemente fasulle, anche se il concetto di vero o falso, a Merca, era molto meno rigido che altrove. Alcune anziane donne bantu esponevano vasi di mais, sesamo, fagioli, datteri e frumento su grandi stuoie di fibre vegetali intrecciate stese a terra.

L'odore del Kalluun, preparato con tonno fresco, patate e cumino, e quello di verdure, olio di palma e peperoncino dell'eggusi si mescolavano all'aroma del fegato di pecora fritto con cipolle e pane che veniva servito per colazione in una miriade di banchetti improvvisati.

Una miscela unica che nessun altro posto poteva vantare. Sapevi di essere a Merca anche con gli occhi chiusi e le orecchie tappate.

Merisi sfruttò un banco di pentole di rame e acciaio lucidato a specchio per dare un'occhiata dietro di sé. Riuscì a individuare senza difficoltà i tre segugi che gli stavano alle costole: ragazzi magri, probabilmente minorenni, all'inizio del percorso che, se fossero sopravvissuti, li avrebbe portati a farsi strada nella complicata gerarchia tribale Hawiye. Non avevano ancora i tatuaggi. Si sentiva vagamente insultato dalla loro scarsa levatura, ma era anche consapevole del pericolo insito nell'abbassare la guardia. Anche se giovani, era più che probabile che avessero all'attivo un discreto numero di omicidi.

Quei piccoli bastardi cominciavano presto ad apprezzare il sapore del sangue.

Si prese altri dieci minuti per irritare ulteriormente i suoi cani da guardia, poi tagliò tra i banchi per uscire dal mercato.

Passò accanto a un gruppetto di uomini male in arnese che stavano ascoltando un comizio di un oratore improvvisato, in equilibrio precario su una cassa di legno che era servita a contenere fagioli in scatola provenienti dall'Olanda. Sul muro, dietro di lui, qualcuno aveva attaccato un manifesto a diodi organici caricato con un video del famoso discorso di Waberi, in cui Kawasi aveva parlato della necessità di cambiamento radicale di fronte a più di cinquemila persone, a due passi dai cancelli dell'aeroporto internazionale Aden Adde. Il montaggio, una serie di primi piani di Kawasi e di panoramiche della folla che, grazie all'angolazione delle riprese, sembrava sterminata, finiva prima del momento in cui l'esercito era intervenuto a disperdere la manifestazione non autorizzata usando idranti e fucili ARX 200 caricati con munizioni non letali.

Nel fuggi fuggi generale i morti c'erano stati comunque, anche se i giornali avevano glissato sulla notizia.

«Stiamo morendo» lo sentì gridare. «Dobbiamo passare alla Lega se vogliamo sopravvivere. Il nostro popolo muore di fame e ai wit non frega niente. Per loro siamo solo servi...»

Eroe oscuroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora