A Francesca, che ogni giorno supporta la mia mente contorta e al mio vecchio professore di italiano, che mi ripeteva sempre che non bisogna mai accontentarsi di scrivere una parola se non crediamo sia quella giusta.
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Mi dimenavo continuamente mentre i merletti del vestito si strofinavano ruvidamente sulla mia pelle candida. Era così fastidioso quell'abito.
La sarta alzò lo sguardo verso l'alto e sbuffò, forse per la ventesima volta in quella mezz'ora.
Non ero fatta per queste cose. Non avevo pazienza.
Stare ferma su quel piedistallo mi stava annoiando e, a peggiorare la situazione, ci si metteva pure mia madre che si era ridotta a comandare a bacchetta perfino la povera donna che mi stava sistemando l'orlo del vestito.
"Togli quel merletto!" "Sposta quella spilla, rischi di pungerla!" "Se lo facevo io ero più capace, dannazione!"
Non la sopportavo più.
Rivolsi uno sguardo pietoso alla sarta e le feci un cenno con la testa, condividendo con lei l'agonia che mia madre stava trasmettendo. Provavo pena per quella poveretta, insomma, stava solo cercando di fare il suo lavoro.
Gonfiai le guance e poi voltai lo sguardo verso la vetrata del salone.
Mi misi ad osservare Tate, il pastore belga, che giocava nel giardino insieme al signor Shelton, il vecchio guardiano.
Sorrisi a quella scena; avrei dato il mondo per potermi trovare al posto di quei due in quel momento. Stare a meno di tre metri di distanza da mia madre non era piacevole ed ero sicura che la donna alle prese con le spille la pensasse esattamente come me.
"Finito!" la voce delicata della sarta mi riportò con la mente in quel salone. Sorrisi alla donna che guardava il suo lavoro con soddisfazione e mi girai verso lo specchio, alle mie spalle.
Rimasi muta, cosa potevo dire? Non ero io, ma d'altronde non ero mai io. Non mi era permesso essere normale, dovevo essere come loro: ricca, seria e snob. E quel vestito era una delle tante conferme che nella vita avevo indirettamente avuto.
Era così bello, così inadatto per la goffa e stupida ragazzina che ero.
La scollatura a cuore combaciava con il mio esile seno, mentre il bustino che mi circondava la vita era ricamato da pizzo raffinato e mi stringeva così tanto da farmi gonfiare il petto, rendendo le mie tette molto simili a due mongolfiere. Dalla vita partiva una lunga gonna che si allargava verso il fondo, fino a coprirmi le scarpette, e concludeva sul retro con uno strascico infinito.
Quel vestito dal color crema era troppo per me.
Bellissimo, sì, ma non era compatibile con la mia figura. Insomma, quella non ero io.
Avrei preferito indossare uno dei miei soliti abiti. Magari quello della domenica, giusto per essere più carina, ma non quel mostruoso e perfetto vestito.
Sbuffai rassegnandomi, nemmeno facendo una scenata sarei riuscita a far cambiare idea a mia madre su quel coso.
Guardai tramite lo specchio il rilesso della sarta e, rivolgendole un flebile sorriso, la ringraziai.
"Ora, se volete scusarmi, mi ritiro nella mia camera. Mandate qualcuno ad avvisarmi per quando sarà pronta la cena." corrucciai la fronte e, pressando le labbra insieme, scesi dal piedistallo e mi diressi verso le scale al fondo della sala.
Salii a fatica le scale, tenendomi alzato il vestito per impedirmi di inciampare e ruzzolare giù per una delle tante rampe che mi toccava fare.
Una volta arrivata in camera mia mi buttai sul letto senza nemmeno levarmi il vestito.
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American Soldier
Fanfiction1942, Stati Uniti d'America, contea di Benton (Benonville, Arkansas). Seconda guerra mondiale. Per Scarlett il mondo era un posto meraviglioso, pieno di scoperte e di luoghi che andavano oltre l'immaginazione. Il carisma della ragazzina era raggiant...