Capitolo ventitré

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Raccontare l'abisso...Credevo potesse sfiorare solo coloro che sono vicini alla morte. Esso non è altro che il vuoto nero che ti raccoglie e culla nelle sue incessanti voci fluttuanti che diventano lontane, cori distanti e rimbombanti, i quali mi hanno fatto temere di esser entrata nell'oblio di Mytri. Risvegliarsi dopo l'abisso è avere in petto tutti i battiti del cuore e non sentirsi in vita.

È accorgersi che la luce è un pallore distante, inafferrabile e che non lo si può cercare in cieli privi di costellazioni.

Quand'ero una bambina, prima d'addormentarmi, mio padre mi narrava le storie dei grandi sovrani del cielo, i nostri Dei, nonché creatori, mi diceva che loro ci guardavano e ci proteggevano e che furono loro a donare la magia ai Fae, per rendere questo mondo un luogo accogliente e lieto. Quelle erano storie raccontante a una bambina, la quale ha nutrito dentro di sé la sciocca speranza, tinta d'arroganza, di poter proteggere lei quel medesimo mondo, ma quel mondo che mio padre mi descriveva non esiste e, forse, non è mai esistito.

La verità è che i Fae hanno lasciato queste terre perché sono marce, lugubri e pullulanti di creature senz'anima.

Ho ammirato l'abisso, era nei suoi occhi ed era dentro di me ogni volta che la mia anima l'ha amato, anche solo per un istante. Ma io e lui siamo nati per essere nemici. Lui è nato per distruggere e annientare nobiltà e potere, i quali io sono, invece, destinata a servire.

Dalle mie palpebre, intorpidite e ancora serrate, intravedo la fiammella d'una lanterna, non sono più persa nell'oscurità, non sono più confinata in quei tetri sotterranei, il mio corpo è disteso su di un morbido letto e un intenso odore di bacche invade il mio olfatto sensibile. Dischiudo i miei occhi, abituandomi lentamente, alla luce delle lanterne che mi circondano, non metto a fuoco il luogo in cui mi trovo, ma intuisco di essere in un posto a me familiare e accogliente. Nora ama le bacche e ne tiene sempre una ciotola vicina al suo letto, credo di essere proprio nella sua cabina.

Con la fronte aggrottata e i muscoli del mio corpo alquanto rigidi e formicolanti, tento di sedermi sul bordo del letto e, malgrado le mani tremanti e la vista ancora annebbiata, riesco a farlo e, con la punta dei miei piedi nudi, sfioro il legno delle assi del pavimento, è ruvido e tiepido.

La mia vista man mano che si rischiara mette a fuoco ciò che mi circonda e ogni dubbio svanisce, così come ogni attanagliante magone.

Sono sul vascello di Ocram, sono salva eppure, non riesco a sentirmi al sicuro, non a pieno. Sento che manca un pezzo di me e, goffamente, lo cerco nel mio petto, sul lato del cuore nel quale stringo un pugno a vuoto, per poi batterlo contro di esso più e più volte. Il mio volto si cosparge di lacrime, le quali scivolano copiosamente sino al mio mento e da lì cadono sulle assi.

Quell'istante mi torna alla mente, vivido in ogni suo dettaglio, in quel momento non ho visto solo morire un uomo, ma ho assistito alla distruzione di un'anima, essa s'è spenta dinanzi i miei occhi annichiliti, in quello sguardo appassito e assente, di quelle iridi nere, le più oscure e dannate che io abbia mai visto e in cui io stessa mi sono persa, ammaliata dalla loro crudele e perversa bellezza.

Atroce questo mio destino, maledetto da questo amore che provo e non riesco a strapparmi dal petto, il quale contortamente amo e odio, contro me stessa.

«Tesoro» Esordisce Nora, facendo il suo ingresso dalla porta, la quale era rimasta aperta.

Il suo viso, distorto in un'espressione affranta e apprensiva, si china verso di me e, le sue mani gentili, si poggiano sulle mie che non smettono di tremare.

«Va' tutto bene. Sei al sicuro qui, ci sono io» Mi sussurra, inginocchiandosi dinanzi a me, portando le mie mani sulle sue labbra che, con aria materna e rassicurante, bacia e accarezza contro il suo viso.

Efram: l'arte dell'inganno (Libro I e II)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora