1. Appiglio

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«Dov’eri finito?».

Mi ritraggo bruscamente dalla presa ferrea di mia madre, con ancora il respiro corto.
«Dov’è Marco?».

Non risponde alla mia domanda, si premura semplicemente di guardare Daniele e gli altri alle mie spalle. «Non avevi detto che rimanevi a dormire da Nina? Mi hai mentito di nuovo, Andrea?».

Il suo tono severo non è l’ennesima pugnalata allo stomaco, non ora che mio fratello ha bisogno di me. «Ti ho chiesto dov’è Marco».

«Il dottore sta finendo di visitarlo, tuo padre è dentro con lui».

Deglutisco a fatica, a causa dell’enorme nodo che mi si è creato alla gola. «Da quanto è dentro?».

«Qualche minuto».
Non smette di fissarmi lei. Osserva ogni mio singolo spostamento, da quando mi siedo, a quando sollevo lo sguardo in direzione di Daniele per un nanosecondo .
«Chi sono?».

«Siamo amici di Andrea», ribatte Vittorio, prima che possa farlo io.
«…e anche di Marco», aggiunge Ilo, appoggiandosi alla parete alle sue spalle con ancora il terrore negli occhi.

«Vi ho già visti da qualche parte…».

«Sì. A casa sua, signo’. Quanno Marco ha finito il montaggio del nostro videoclip».

Mia madre storce il naso, abbassando lo sguardo su di me. «Possiamo parlare?».

«Non ho nulla da dire».

«Andrea».

«Andrea, cosa? T’ho detto che non c’ho voglia de parla’. Te devo fa’ un disegnino? Lasciame perde, ma’».

«Che ne dice se se pijamo un caffè?». Vitto e Ilo le circondano le spalle, causandole uno spasmo nervoso alla palpebra destra che mi strappa un mezzo sorriso. «Lei lo preferisce amaro?».

«Ma che amaro! Te sei impazzito? Mettemoce un quintale de zucchero», sussurra il moro, beccandosi in tutta risposta uno schiaffo sulla nuca dall’altro.
Spariscono lungo il corridoio, lasciando me e Daniele da soli, in balia di ancora un sacco di emozioni che non so come gestire.

«Ao, sta’ tranquillo. Marco starà bene, nun te devi preoccupa’ de niente».

«Davvero?». Cerco di sorridere, ma presto quella misera curva nata sul viso viene ostacolata dal sapore amaro delle mie stesse lacrime. «È tutta colpa mia. Non appena verrà a sapere la verità – sempre se non la sa già – smetterà di rivolgermi la parola. E stavolta per sempre».

«Sono sicuro che sia scientificamente provato che è impossibile odiare il proprio gemello».

«Non di’ cazzate», rido fra i singhiozzi, diventando serio non appena una sua mano si allunga a stringere la mia.

«Te je dici la verità. Poi vediamo chi c’ha ragione». Mi racchiude il mento fra pollice e indice con la mano libera, costringendomi a incontrare di nuovo il suo sguardo.
È talmente profondo, viscerale, che mi tremano le gambe. «Me dispiace se t’ho messo nei casini. Non sono molto bravo a lascia’ fuori dai miei guai le persone che… che… a cui vojo bene, ‘nsomma».

«Me ce so voluto mette da solo nei casini. Ce potevo pensa’ prima».

«A cosa? Al fatto che quello stronzo psicopatico avrebbe potuto scambiare tuo fratello per te? Penso che neanche la più fervida delle fantasie ti avrebbe potuto condurre a questa conclusione».

«Sarà…».

Socchiudo gli occhi, inclinando leggermente il capo per appoggiare la guancia sinistra su una sua spalla. «Andre’…».

«Sì, scusa, è che…». Mi rimetto di nuovo seduto normalmente, avvertendo una morsa insopportabile all’altezza dello stomaco.
Ci risiamo.
«Siamo amici, o quantomeno possiamo sembrarlo. Che male c’è se-».

«No, aspe’, stai a fraintende come al solito. Non è che non possiamo perché me vergogno, è solo che non m’è sembrato de esse nelle grazie de tu madre. È meglio evitare de farla incazza’».

«Mi madre è ‘na stronza».

Ridacchia. «Me ne so’ accorto».

«È l’unica che a casa me fa sentì ‘na merda. Persino mia sorella non me fa domande der cazzo solo perché mi trucco o mi vesto un po’ più femminile».

«Ma te le hai detto che-?».

«Che mi piace indossare abiti da donna? Che mi piaci tu? No, non ce n’è stato il bisogno. Non appena ho provato ad aprirmi, mi ha detto che lo sapeva già e mi ha fatto sentire talmente sporco che ho passato un’intera settimana a piangere».

«Questo non me l’hai detto, però».

«Stai già pieno de casini, Danie’. Che te devo venì a dire pure i miei?».

«Funziona così quando due persone se vojono bene, eh. E se lo sa persino un coatto come me, non vedo perché non debba saperlo tu».

Deglutisco sonoramente, poggiandogli una mano sulla coscia e stringendogliela con forza. Quasi stessi cercando un appiglio alla mia vita disastrosa.

«Io te parlo sempre dei problemi miei, perché me fido de te, perché me piace ascolta’ i tuoi consigli, e soprattutto perché sei l’unico che me riesce a strappa’ un sorriso persino quando me sembra che sta andando tutto a puttane. Perché non puoi farlo anche tu con me?».

«Perché c’ho paura».

«De cosa?».

«De spaventatte».

«Perché dovresti?».

La nostra bolla viene scoppiata da mia madre, che non appena ci vede così vicini e complici diventa una statua di marmo.
Ilo e Vitto, alle sue spalle, stanno litigando per una cioccolata calda, ignari dello sguardo glaciale della donna che mi ha messo al mondo e che adesso sembra quasi stenti a riconoscermi.

«Papà, sto bene. Smettila di assillarmi, per favore!».
La voce di Marco mi riporta alla realtà, invogliandomi ad alzarmi e a raggiungerlo con gambe tremanti.

«Non te volevo di’ cazzate. Me dispiace. Scusa. Ti voglio bene». Gli avvolgo le braccia attorno al collo, stringendolo talmente forte che subito emette un verso di dolore.

«Andre… sta un po’ acciaccato. Cerchiamo de volergli bene senza finire l’opera di quei vigliacchi, sì?».

Mi stacco, asciugandomi gli occhi con la manica della felpa e indicando Daniele poco distante da noi. «Ti ho mentito di nuovo. Ero con Daniele e gli altri. È una lunga storia, ma se vuoi te la racconto».

Ho paura che Marco reagisca male, che mi dica di andarmene a fanculo e che assesti un cazzotto a Tramet con il braccio rimasto “sano”. Invece lui si limita ad annuire, usando quel braccio per circondarmi le spalle. «Aiutami a camminare, però, che me fa male tutto».

«T’hanno proprio corcato…».

«Guarda che lo so che volevano corca’ te», mi sussurra, salutando mamma e papà con la mano. «Abbiamo da fare. Ci vediamo più tardi».
Prima che possano riempirci di insulti scappiamo tutti e cinque verso l’uscita.

«Dove andiamo?».

«Da Marika».

Mi irrigidisco, guardando Daniele con la coda dell’occhio. «Perché proprio da Marika?».

«Perché devo prendere la mia roba. Torno a stare da Vitto».

Me pare pure inutile di’ che sto a sorride come un cojone.

Complici |Daniele x Andrea|Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora