Capitolo 15

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Quando il campanello suonò, non seppi dire se la stretta che provai fu più un sollievo o una condanna.

Abbandonai la scrivania e i libri di fisica, dirigendomi all'ingresso. C'era una strana incertezza nei miei movimenti, quasi avessi paura che la mossa sbagliata avrebbe potuto distruggere ogni cosa.

Scesi le scale a passo svelto, l'urgenza sempre più pressante di spezzare il silenzio teso che per tutta la giornata era rimasto attaccato alle pareti di casa, una macchia di umidità che mi opprimeva il fiato.

Lanciai un'occhiata fugace al divano del salotto, dove mamma stava leggendo, completamente assorta dalle belle parole del libro.

Quando le avevo parlato della festa, si era irrigidita, e l'apprensione ancora sembrava esserle rimasta incollata ai lineamenti, incapaci di rilassarsi.

Io, d'altro canto, avevo abbassato lo sguardo, consapevole che mamma era l'unica capace di leggermi dentro, con quegli occhi che sembravano pozzi argentati.

Istintivamente, schiusi le labbra, in procinto di dire qualcosa, ma poi le richiusi, rassegnata, il peso della nostra discussione che ancora gravava nel petto.

Mi affrettai a spalancare la porta. Lauren stava sull'ingresso, raggiante, incapace di contenere la sua trepidazione.

«Pronta a passare le cinque ore peggiori della tua vita?» mi chiese con un sorriso furbo, mostrandomi la borsa piena di trucchi e vestiti che aveva portato con sé.

«Non vedo l'ora» mormorai, con poco entusiasmo.

Lauren aveva sempre amato risplendere, in quel suo modo genuino e appariscente che le apparteneva, ma io odiavo mettermi in mostra.

La accompagnai in camera, sperando di svegliarmi al più presto da quell'incubo ad occhi aperti.

Lauren si guardò intorno per qualche istante, fissandosi sulla scrivania piena di quaderni. In uno scatto fulmineo, prese libri e appunti, e li cacciò alla rinfusa nello zaino, osservando soddisfatta il tavolo, ora sgombro.

«Questi non ci servono, adesso» annunciò sollevata.

Io seguii i suoi movimenti senza fiatare. Mi sedetti sul bordo del letto, mentre lei tirava fuori dalla sua borsa una quantità di trucchi, profumi e boccetti da fare invidia a un negozio di cosmetici.

«È davvero necessaria tutta questa roba?» le feci notare.

Lauren mi guardò come se avessi un nido di corvi sulla testa.

«Certamente» annuì, prima di riprendere a sistemare vestiti e altri accessori che chissà come era riuscita ad infilare nella sua borsa senza fondo.

Attesi che finisse, mentre il disagio si espandeva dentro di me, strisciante e velenoso, stringendomi la gola.

La prospettiva della festa mi turbava, ogni secondo che passava mi avvicinava di più al momento in cui avrei di nuovo varcato la soglia di quel tendone bianco, quando le grida e la musica avrebbero sovrastato ogni cosa, annullandomi. Facendomi perdere tra rovi di rimpiati e foreste di panico, un'altra volta.

«Vado a prendere da mangiare, mentre finisci di sistemare» annunciai, uscendo dalla camera il più velocemente possibile, senza neanche attendere un cenno da parte di Lauren.

Avevo bisogno di calmarmi, ricoprirmi di indifferenza e smettere di pensare. Ma il tempo scivolava via, e l'inquietudine si insinuava tra le pieghe della mia anima, paralizzandomi.

Raggiunsi la cucina, sentendomi un'estranea nel mio stesso corpo. Afferrai un pacchetto di biscotti e due lattine d'aranciata.

Era sbagliato. La festa, quei preparativi assurdi, tutto. Avrei voluto ribellarmi, scappare, annullare ogni cosa. Riscrivere le ultime pagine della mia storia, ritrattare le mie pessime decisioni.

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