Prologo

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La frode, ond'ogne coscienza è morsa,
può l'omo usare in colui che 'n lui fida
e in quel che fidanza non imborsa.

Questo modo di retro par ch'incida
pur lo vinco d'amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo s'annida
ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.
Per l'altro modo quell'amor s'oblia
che fa natura, e quel ch'è poi aggiunto,
di che la fede spezial si cria;

onde nel cerchio minore, ov'è 'l punto
de l'universo in su che Dite siede,
qualunque trade in etterno è consunto».
Canto XI, Inferno, Divina Commedia
Cos’è l’ipocrisia? Secondo Dante un mezzo per portare l’uomo all’ingiuria, al peggiore dei peccati, alla bestemmia; in particolar modo l’ipocrisia verso colui che si fida di noi o si è fidato di noi è fortemente biasimata dal sommo poeta nel canto XI dell’Inferno.
Nelle braccia di Lucifero risiedono coloro che utilizzano la sporca frode per ingannare, attirare nella loro trappola, individui macchiati della sola sventura di aver dato loro fiducia.
Il termine deriva dal greco hypokrisíē, a sua volta una forma rara della parola hypókrisis "simulazione": mostrare ciò che non è per ottenere ciò che si vuole. L’etimologia della parola è strettamente legata al mondo della recitazione o finzione: l’attore è ipocrita recitando sulla scena ciò che non è, così come l’uomo nella vita di tutti i giorni. 
Sostenere questa parte è cosa naturale per l’uomo: sarebbe folle e assurdo non farlo. Se tutti vivessero come davvero vorrebbero, verosimilmente, non vivrebbero tutti; la società “civile”, per come la conosciamo e per come la viviamo, cadrebbe a pezzi, in frantumi; senza un briciolo di ipocrisia il furto e l’omicidio, i mali principali di una società senza filtri, avrebbero libero sfogo.
L’ipocrisia è una corda che lega l’uomo e lo trattiene proprio da questi due mali principali: è terribilmente attraente il furto, il togliere qualcosa a qualcuno, solo per il gusto di farlo; l’omicidio, forse, lo è ancora di più.
L’ipocrisia è la zizzania: infesta i campi di cereali così come l’ipocrisia infesta la bontà degli uomini; tuttavia, entrambe sono una costante fissa.
Tre piccoli quadretti di ipocrisia aleggiano nella stanza bianca: appesi al muro privo di colore ci sono tre scene di pura quotidianità, pura ipocrisia, comuni a tutti gli uomini.
Il primo quadretto, posto all’estrema destra, vede al centro una ragazza: il suo corpo è lievemente fasciato da un nastro bianco, sufficiente per coprire ciò che dovrebbe essere coperto; sopra i suoi occhi è posta una benda, bianca, grazie alla quale non vede. Intorno a lei, disposti in cerchio, si possono notare delle semplici ombre, nere e grigie, le quali si dispongono sopra un telo bianco posto sul parquet.
Dunque la scena è la seguente: un solo corpo fasciato da un sottile nastro bianco, un telo, bianco, posto sul pavimento e sette, enormi, ombre grigie e nere intorno a questo corpo. Nessuna ombra vive senza corpo: le ombre appartengono a sette cani.
Il secondo quadretto, posto al centro, non ha persone: le persone o, per meglio dire, i corpi sono distesi a pelo d’acqua sul mare; sopra di essi, alle due estremità del quadro, si vedono dei lunghi coni di cemento i quali dovrebbero sorreggere un ponte; un ponte che non c’è.
Il ponte dovrebbe sostenere dei corpi i quali corpi, non essendo sostenuti da niente, sono caduti nelle profondità dell’oceano; rimangono solo due coni a testimoniare la presenza di questo ponte, inutile. Non c’è niente di più inutile di un ponte che non sostiene niente; sopra questo ponte nessuno può passarvi, nessuno può continuare il suo viaggio.
Il mare si macchia del sangue di queste persone che il ponte non ha voluto o forse non ha potuto sostenere; le fondamenta del ponte sono crollate ed anche i due coni, alle estremità del quadro, sono in procinto di cadere. Nessuno è così idiota da costruire un ponte caduto.
L’ultimo quadretto, il terzo, sulla sinistra, raffigura due donne o, piuttosto, una donna in due: si vede una ragazza, sulla ventina, indossare un velo per coprire il suo capo.
La giovane donna si guarda nello specchio e rivede se stessa compiere lo stesso movimento: tuttavia da un lato del quadro una mano la tira e le strappa il velo; dal lato opposto, invece, si vede una croce che viene posta sopra il petto della ragazza. Lo stesso oggetto, un velo, in un caso viene tolto, squarciato, come segno di “libertà”: nell’altro caso, il velo viene lasciato sul capo in nome di un altro oggetto, una croce, che legittima la presenza di quel velo.

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