Storia di un ponte sospeso

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Dieci persone sedute ad una enorme tavolata discutono, animosamente, della vita di altre milioni di persone.
Dieci persone stringono tra le loro mani i corpi di milioni di altre persone, possiedono i loro respiri, i loro sogni, le loro aspirazioni.
Dieci persone sanno e sono consapevoli che il bene vita è sempre superiore rispetto al bene patrimonio: sanno che la vita deve sempre essere valorizzata, soprattutto, si potrebbe ribadire con forza, la vita umana.
Dieci persone sono sedute a questa tavolata e, su questa tavolata, ci sono due enormi piatti: da una parte un cumulo di denaro, pezzi di carta pregni di potere d’acquisto; dall’altra tante piccole teste fluttuanti. I due piatti sono posti su una bilancia: da quale parte pende la bilancia?
È una bilancia strana, opposta rispetto a quella che ci si potrebbe immaginare: non vale di più chi pesa di più ma bensì chi piace di più: di conseguenza il piatto vuoto, il piatto dal quale tutti hanno mangiato, è il piatto preferito.
C’è una tavolata, ci sono due piatti e dieci persone, ogni persona è seduta a questa tavolata: ogni persona non è una persona: non ha occhi, ma bottoni, non ha bocca, ma voragini, non ha cuore ma mazzette di soldi sporchi di sangue.
“Gianluca, alzati e mangia”, si sente una voce metallica, un giradischi posto sull’estremità della tavola chiama il primo commensale per godere del pasto.
L’uomo o, per meglio dire, l’essere si alza e si dirige verso il centro della tavola: avvicina le mani ad entrambi i piatti: i bottoni fissano con avidità il piatto del denaro e, senza pensarci qualche istante, arraffa più soldi possibili e li ingurgita soddisfatto e compiaciuto.
“Lucrezia, Giulia, Antonio, alzatevi e mangiate” continua la voce proveniente dal giradischi: i tre commensali, dopo aver fatto accomodare il primo, si avvicinano contemporaneamente al centro della tavola: nessun dubbio, nessuna esitazione, divorano il denaro.
“Antonio e Paolo, alzatevi e venite per mangiare”, tuona la voce metallica, non appena gli altri commensali hanno preso posto: dalle parti opposte della tavola si alzano, in modo speculare, i due commensali per avvicinarsi al centro.
I due uomini si bloccano al centro: Antonio, istintivamente, posa lo sguardo sul piatto del denaro, Paolo, di contro, sul piatto delle teste.
“Che cosa bisogna fare?” chiede Paolo, rompendo le risate dell’allegra compagnia, riportando un silenzio assordante; “Ti ho chiesto che cosa devo fare, Antonio.”, ripete, nuovamente, Paolo in attesa di una risposta del commensale, una risposta che possa sciogliere il suo dilemma.
“Questo.”, in pochi secondi Antonio si butta sul piatto del denaro, inguirgitando voracemente il suo contenuto sporcandosi la bocca di sangue; “Adesso hai paura, Paolo?” ridacchia Antonio, lanciando qualche sguardo al commensale prima di ritornare al suo posto.
Le risate riprendono ma, questa volta, oggetto del ridere è solamente Paolo: la sua tenera indecisione, il suo senso di colpa ipocrita è sulla bocca di tutti: è insopportabile.
L’uomo allora, dopo un primo momento di timidezza, arraffa tutto quello che può dal piatto del denaro: la bocca si rimpie di soldi sporchi a tal punto da causare dei conati al commensale; delle lacrime tagliano il suo viso per la scelta fatta.
“Sonia, Laura, Giovanni, alzatevi e mangiate”, la voce metallica non aspetta un secondo, non contempla le lacrime di Paolo, non prova pietà per una scelta che, per quanto sofferta, è sempre una scelta.
I tre commensali si alzano e, all’unisono, procedono a divorare il piatto del denaro, sghignazzando per il redicolo teatrino di Paolo.
“Giuseppe, alzati e mangia.”, l’ultimo commensale, rimasto in disparte per il resto del pasto, viene convocato dalla voce metallica del giradischi e non esita ad accogliere l’invito; tuttavia, giunto al centro della tavola, un dubbio atroce tormenta quel misero senso di colpa.
Giuseppe avvicina entrambe le mani ai due piatti: nuovamente, per la seconda volta, il silenzio ruba la scena al riso: c’è un commensale che potrebbe non volere quel cibo così delizioso e invitante e questo è elemento di disturbo.
“Non riesco, scusate.”, Giuseppe, strappandosi i bottoni per non contemplare il biasimo dei commensali, avvicina la mano alle teste e inizia a mangiarle, lentamente, per gustarne il sapore.
Dal giradischi, mentre Giuseppe continua imperterrito a succhiare il sangue delle teste, rimbomba questa voce, “Dimmi con chi mangi e ti dirò chi sei: dimmi cosa mangi e ti dirò cosa vuoi.”
All’improvviso una luce, bianca e brillante, illumina l’unica finestra nella sala, all’estremità sinistra: Giuseppe corre, apre quella finestra, per mostrare il suo martirio.
Le teste, ingurgitate dal commensale, fuoriscono dalla sua bocca e si buttano in mare, galleggiando sull’acqua: sopra di esse, un ponte si sgretola sotto gli occhi dei dieci commensali facendo crollare i corpi, prima sorretti da quel ponte.
Ogni corpo, in pochi attimi, si ricongiunge alla sua testa, gioendo della riunione insperata: la testa si aggancia al corpo, sprofonda nelle viscere del mare.
Niente rimane di quei corpi, o, anzi, di quelle teste: solo una scia di sangue accompagna la loro dipartita.

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