Capitolo 3

3 0 0
                                    

La mattina seguente mi alzai parecchio più tardi del solito nonostante mi fossi addormentata alle sette di sera senza aver neanche cenato. Mi ero buttata e addormentata all'istante, tanto che indossavo ancora i vestiti con cui ero uscita dall'ospedale. Un paio di jeans blu e una polo rosa che non ricordavo neanche di viver mai posseduto. Mi tolsi i vestiti per poterli mettere nel portabiancheria e per cambiare le lenzuola. Svuotai le tasche dei jeans: nella sinistra trovai un pezzo di carta piegata dove qualcuno ci aveva sputato una gomma da masticare, mentre nella destra trovai un bottone e il biglietto da visita di Ryan Harris, il medico. Sistemai i panni nel cesto del bucato in maniera furtiva ma un'asse del parquet cigolò lo stesso. Mia madre possedeva un udito supersonico: - Hannah, sei sveglia? Vieni giù che ho fatto i waffles!

Non avevo fame. Lo stomaco era ancora sottosopra. Rimasi a fissare quel dannato biglietto. Il fatto che non mi avesse spiegato tutto subito e che mi è incoraggiato a mentire, lo rendeva una persona losca dal mio punto di vista. Stracciai il biglietto in mille pezzi.

- Arrivo subito!

Scesi le scale a velocità bradipo. Non mi serviva uno strano dottore che poteva anche essere uno psicopatico stile dottor Jekyll e Mr. Hyde. Anche se poteva avere delle chiare spiegazioni e prove su quanto accaduto, è stato un episodio a sé. Non mi era mai successo prima e mai più sarebbe accaduto. Ero scesa dalle scale da un po' ma mia madre non si era accorta. Mi avvicinai sempre di più. Mi notò con la coda dell'occhio ma decise comunque di far finta di niente. La abbracciai affettuosamente.

Appena ci separammo le sussurrai nell'orecchio: - Grazie.

- C'è una buona colazione – disse mia madre sentendosi per la prima volta inutile – Ti ho fatto i waffles, i tuoi preferiti!

La abbracciai forte e appena ebbi le forze emotive dissi: - Per me niente, grazie. Ho lo stomaco chiuso. Vado in ospedale.

Si staccò immediatamente: - In ospedale? Perché?

Lo sapeva benissimo ma voleva sentirlo dire da me. Io però non ero pronta.

- Lo sai. – sbuffai guardando verso l'alto per trattenere le lacrime – Ora vado, se non ti dispiace.

Mentre mi avvicinavo alla porta arrivò la pugnalata alle spalle: - Non credo ti faccia bene. Vederla così, in quello stato, peggiorerà le cose.

- Non lo faccio per me ma lo faccio per lei! – non volevo distogliere lo sguardo dalla porta.

- Hannah, andare lì non cambierà la situazione.

- Lo so – dissi tenendo la mano sul pomello – Ma non me lo perdonerei mai se le dovesse succedere qualcosa e non fossi lì presente.

Chiusi la porta alle mie spalle senza dargli il tempo di replicare. Non ero arrabbiata con lei ma con me stessa. Con la situazione. Con il mondo intero. Presi l'autobus. Avevo due fermate prima di arrivare all'ospedale. Non guardai in faccia nessuno. Mi limitai a fissare il mondo che continuava per la sua strada nonostante per Julie si fosse fermato. Scesi alla fermata ed entrai direttamente nell'ospedale. Passai tutti i corridori a testa bassa. Salii sull'ascensore fino al quarto piano e camminai come un bersagliere fino alla stanza numero 12. I suoi genitori erano lì fuori a piangere disperati mentre parlavano con il medico che seguiva Julie.

- Oh, ciao Hannah. – salutò la madre di Julie asciugandosi le lacrime ma lasciando lo stesso il segno del trucco colato. Erano esausti.

Non riuscii a guardarla in faccia per più di cinque secondi a causa del rimorso che provavo: - P-posso entrare?

La signora Fleming mi prese la mano e la accarezzo dolcemente con il pollice: - Tranquilla, vai pure.

Entrai chiudendo la porta alle mie spalle. La stanza aveva una piccola finestrella con il vetro trasparente sulla porta, a differenza degli altri opachi. Forse perché i dottori potevano controllare la situazione velocemente quando attraversavano il corridoio. Alzai lo sguardo e la vidi. La sensazione fu quella di una lama che lentamente penetrava nel cuore. Ad ogni passo che facevo verso quel letto d'ospedale soffrivo sempre di più e il dolore fu talmente forte che cominciai ad avere forti fitte al petto. Il dolore emotivo diventò fisico. Presi una sedia di plastica e mi sedetti alla sua sinistra. Julie era irriconoscibile. I suoi lunghi capelli rossi erano stati in parte rasati. Il suo viso roseo era diventato bianco come la neve e la faccia era stata sfigurata dalle fiamme. Aveva macchinari attaccati ovunque e la maschera che l'aiutava a respirare copriva una delle poche parti del viso rimaste integre. Le presi la mano. Nella stanza regnava il silenzio, ogni tanto interrotto dalla macchina che registrava i battiti. Intorno alla stanza c'erano miriadi di bouquet e bigliettini di buona guarigione. Per quasi mezz'ora rimasi assieme a lei, mano nella mano, sperando che bastasse solo questo a svegliarla dal coma. La fissavo cercando di pensare solo cose positive o di non pensare affatto, ma non ci riuscivo. Era impossibile riuscire a fare ordine tra i miei pensieri. La mente mi riportava a com'era ridotta Julie a scuola, come un flash. Nella stanza si udivano solo rumori da ospedale: ventole, il vario bip dei tanti pulsanti, la gocciolina che diluiva la flebo e i vari suoni delle macchine attaccate a Julie. Ma io sentivo ben altro. Una grande confusione che mi oscurava la mente.

Sono stata io. Io sono la responsabile. Ero io a dover stare in quel letto a soffrire, non lei.

Una lacrima scivolò sulla mia guancia. Sperai fosse solitaria ma si trascinò dietro una cascata di dolore. Volevo soffocarlo ma lo sforzo mi infiammò la gola. Tentai di fermare le lacrime. Mi premetti forte i palmi sugli occhi ma non cessavano.

Qualcuno mi toccò la spalla e saltai di scatto sulla sedia. Era il dottor Harris: - Tutto a posto Hannah? Sembri molto tesa.

- Non sono tesa. Sto bene! – dissi per evitare di prolungare questa conversazione.

- Sicura? – disse sempre con voce profonda e rassicurante – Stai stritolando la mano di questa ragazza.

Mi voltai. Era vero. Tolsi la mano a difficoltà e senza riuscire a ricompormi. Avevo il viso inondato dal pianto. Provai ad asciugarlo in fretta, cercando di non farmi notare. Il dottor Harris sembrava voler uscire, ma in realtà prese la sedia di fianco alla porta d'uscita e si sedette al mio fianco. Non lo volevo. Non ne avevo voglia. Dovevo stare da sola. Dovevo sperare e punirmi.

- Chi è? – chiese con compassione – Una tua amica?

Strinsi i denti: - La migliore.

Il dottore non cercò di ottenere un contatto visivo ma non avrebbe avuto importanza. Per nulla al mondo avrei staccato gli occhi dalla mia amica. Con estrema cautela, fece una domanda pericolosa: - Era... era nella tua classe?

Annui con una stretta allo stomaco che mi fece quasi vomitare.

- So che è dura, parecchio dura, ma io posso aiutarti a capire. – forse il dottore aveva buone intenzioni ma il momento era sbagliato.

- Capire cosa? – cominciai ad alzare la voce – Quello che è successo è inverosimile, anzi impossibile! È... inumano!

Cominciai di nuovo a grondare dalle lacrime: - Se quello che è successo fosse vero, dovrei andare alla polizia. Quello che ho fatto è imperdonabile. Niente che tu possa dire o fare...
Mi fermai involontariamente. Mi mancò il fiato. Avevo il viso inumidito e il naso chiuso che impediva una respirazione profonda. Non riuscivo a smettere di piangere, di calmarmi.

Il medico cercò di aiutarmi: - Respira, respira a fondo.

- Non ci riesco. – ansimai.

Lui mi porse un fazzoletto bianco in tessuto, poi si alzò e cominciò a cercare qualcosa all'interno degli armadi della stanza. Mi asciugai il viso e poi mi soffiai forte il naso. Il dottor Harris fece una piccola esclamazione. Doveva aver trovato ciò che cercava.

- Che cosa fa? – chiesi con il volto perennemente ricoperto dalle lacrime, nonostante me lo fossi asciugato neanche un secondo prima.

Il dottor Harris tirò fuori un piccolo estintore.

- Che cosa...?

- Non sono sicuro, - spiegò – ma credo tu stia per avere un secondo attacco e potresti cominciare a prendere fuoco. Voglio essere preparato.

Cosa? Secondo attacco?

Mi chiesi cosa sapesse più di me. La domanda passò in secondo piano. Non riuscivo a calmarmi. Non sapevo cosa fare. Mi allontanai da Julie alzandomi velocemente dalla sedia in plastica con i manici di freddo metallo. Mi misi il più possibile lontano da tutti.

Devo andarmene. Devo andarmene!

Vedendo ciò, il dottor Harris tolse la linguetta dal piccolo estintore pronto a far fuoco. In quella situazione soffocante fu una casualità che i miei occhi si posarono distrattamente sulla sedia dove ero seduta prima.

- D-dottore – lo chiamai con il labbro tremulo – Guardi.

Lui seguì il mio sguardo. Tutta la sedia si era completamente congelata, come intrisa nell'azoto liquido. Il dottore per un attimo fu completamente sconvolto tanto da mollare a terra l'estintore. Si girò verso di me e irrigidì il viso: - Dobbiamo fare in fretta!

Continuavo a tremare e a piangere mentre il dottore si mise di nuovo a cercare qualcosa per la stanza. Tirò fuori una strana coperta argentata e mi ordinò di coprirmi il più possibile ma di dare priorità alla testa. Cercai di farlo velocemente mentre si mise dei guanti lunghi e una specie di maschera protettiva coprendogli il viso. Il mio corpo continuava ad affaticarsi. Si affaticava sempre di più. Non capii il perché di quelle azioni finché non vidi una parte di me riflessa nello stipite argentato della porta. La pelle, i capelli e i occhi stavano cambiando. Io stavo cambiando. Non riuscii a vedere di più perché il dottor Harris tiro giù il tessuto argentato, coprendomi la visuale.

- Non ce la faremo mai con l'ascensore! – esclamò sempre più preoccupato.

Io ero troppo debole, anche solo per dire che mi era impossibile camminare. Senza preavviso e senza alcuna richiesta, mi prese energicamente in braccio e appena aperta la porta cominciò a correre. Non avevo la minima idea di dove mi stesse portando, ma non sarei neanche riuscita a ribellarmi. Non mi fidavo di lui, per niente ma sembrava saperne più di me. Non avevo scelta. Il dottor Harris scese di corsa le scale. Sembrava preparato. Preparato si, ma per cosa? Evitava qualunque contatto diretto con la mia pelle. Si muoveva parecchio in fretta e credo che senza accorgersene bisbigliasse e mormorasse quello che sembrava essere un conto alla rovescia. Alla fine, riuscii a sbirciare qualcosa. Ci trovammo in un buio corridoio parecchio umido. Dalla mia prospettiva riuscivo a vedere solo file e file di tubi gocciolanti pieni di valvole.

La successiva stanza in cui entrammo era più luminosa. Feci fatica ad abituare gli occhi. Il dottore mi lasciò a terra avvolta in quella strana coperta, ma rimase comunque chinato accanto a me che riprendeva fiato. Avevo adrenalina a mille ed ero molto confuso su quanto stava accadendo. Il mio solo e vivido pensiero era nella camera 12 con Julie, distesa in quel letto mentre lottava tra la vita e la morte. Colpa mia.

La tristezza era tale che sembrava avessi anche dolori fisici. Il dottor Harris capì cosa stesse succedendo. Cosa sapeva? Schioccò le dita davanti ai miei occhi stordendomi: - Guardami! Pensa ad un'immagine che ti faccia stare bene. Puoi farcela.

Abbassai lo sguardo sulle mie braccia, ormai candide come la neve.

- Non guardarti! Concentrati su di me, fissa i miei occhi e respira con tutta la calma possibile.

Ci provai. Ci provai con tutta me stessa. Riordinare i pensieri era come dividere fili intrecciati, impossibile farlo istantaneamente. Una piccola ma potente lacrima scese lungo la guancia, scorse lungo il collo e cadde, frantumandosi a contatto con il suolo.

- Non ci riesco. – mi sembrò di urlare quella piccola frase. In realtà non era altro che un soffocato bisbiglio.

Mi lasciò e corse subito oltre dei robusti tavoli metallici. Ne rovesciò uno e si mise al riparo. Mi rannicchiai il più possibile all'interno della coperta argentata, bisbigliando maniacalmente.

Mi dispiace! Mi dispiace! Mi dispiace!

Chiusi gli occhi e feci scaturire nella stanza tutta l'energia repressa come un'onda d'urto, come la prima volta. Mi sentii svenire. Diedi un'ultima sbirciata al danno che avevo causato. Tutta la stanza era completamente congelata, tanto da avere uno strato di ghiaccio di circa 3 cm. Non avevo il freddo. Tra i tavoli, scaraventati qua e là, si erano formati tante stalattiti ma non percepivo il gelo. La stanza era inondata dal suo freddo tepore ma non sentivo niente. Cercavo il dottor Harris ma non riuscii a trovarlo. I miei occhi cedettero prima.

Elect ProjectDove le storie prendono vita. Scoprilo ora