Capitolo due

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Mi svegliai di soprassalto pensando unicamente a quanto avessi dormito. Non mi era mai piaciuto riposarmi o perdere tempo mettendomi "in stand by" anziché lavorare, uscire o fare qualsiasi altra attività produttiva. In un solo periodo della mia vita il sonno fu la mia funzione vitale preferita.
E purtroppo non parlo di quando ero neonata, bensì del periodo in cui era ciò che più vicino ci fosse allo scomparire del tutto. Mettendo un punto al dolore.
La sera prima non scorsi neanche lontanamente il pensiero di svuotare le valigie fra quelli che come un'autostrada percorrevano la mia mente.
Né tantomeno ebbi la forza fisica per farlo, essendo incluso il sistemare le mie cianfrusaglie da accumulatrice seriale. Allora, presa dall'ansia provocata da quel disordine, mi addentrai in un infinito circolo di pulizie.

Finii qualche ora dopo completamente esausta. Le forze che mi aveva trasmesso il cibo del pomeriggio precedente si erano ormai prosciugate. E capii che se volevo ricominciare da capo, e lo volevo più di ogni cosa, poco alla volta dovevo riprendere a fare pasti nel modo più regolare possibile. Iniziando stamattina.

Non ci misi molto a trovare una felpa calda, forse perché la mia ipotermia, unita al pensiero del trasferimento nella Boston dal clima ostile, mi aveva portato a farne una scorta. Scorta che nella peggiore delle ipotesi sarebbe tornata utile anche in estate. Dopo essermi vestita recuperai l'unica piccola borsa che avevo e ci infilai telefono e portafogli.
Quando varcai la soglia della porta i giramenti di testa si fecero più intensi, faticavo a reggermi in piedi, mi sentivo svenire. Ricordai i cali di zucchero al monolocale, non ero mai intenzionata a mettere cibo in bocca nonostante il mio stare di merda. E l'unica salvezza era scendere di due piani per uscire a prendere aria.

E invece non ero più in Georgia, era cambiato tutto.

Peccato che me ne accorsi quando i due piani di scale correndo li avevo già percorsi. E quando vidi che questa volta ero ancora chiusa nel condomino.

Mi sentivo in trappola, prigioniera di una vita che non aveva fatto altro che sostituire ogni gabbia con un'altra più stretta.

Iniziai ad annaspare, la vista si offuscò e i suoni provenienti dalle case diventarono eccessivamente ovattati. Barcollai un'ultima volta prima di sentire dei passi decisi avvicinarsi, prima di capire che il mio corpo stava cedendo e, soprattutto, prima di lasciarmi cadere con la testa e il cuore pesanti. Mi accorsi di due braccia morbide a sostenermi svariati minuti dopo. Riacquisii il senso dell'olfatto quando un delicato profumo di vaniglia invase le mie narici. E, aperti gli occhi, su essi si posò lo sguardo di una ragazza che sorrideva dolcemente. Mi ricomposi lentamente schiarendomi la voce nella speranza che il mio flebile "grazie" si sentisse.

«Come stai? Hai bisogno di mangiare qualcosa...» mi chiese, con una premura che da una completa sconosciuta non mi sarei mai aspettata.

«Io... si, ma io non ho...» tentai di riprendermi dal fatto che qualcuno mi avesse volontariamente aiutata. Respirai. «Io sono arrivata ieri e non ho ancora niente. Da mangiare intendo. Non so... dove andare.» la preoccupazione che emettevo in contemporanea alle mie parole era palpabile. Presumo. La voce soave della ragazza mi tranquillizzò: «Non preoccuparti tesoro, io sono tornata ora da un viaggio e sono di fretta, devo portare Dustin al preschool, prima che gli passi la voglia e inizi a dare i numeri.» Sorrise. Io guardai alle sue spalle e solo allora mi accorsi di un passeggino e del bambino al suo interno con una mano rigorosamente in bocca. Aveva gli stessi capelli neri afro della madre e la sua carnagione era sempre olivastra seppur molto più chiara. Era bellissimo, i suoi occhioni scuri illuminavano molto più di quanto potesse illuminare una lampada, probabilmente.

Perché mentre una lampada illumina una stanza, uno sguardo può illuminare una giornata.

«Se ti va e se riesci a camminare qui vicino c'è un bar ottimo, non è molto conosciuto, ma preferisco la sua atmosfera tranquilla a quella scalmanata dei pub in centro» continuó. «Altrimenti ho qualche amico qui nel Golden Complex, possono ospitarti lo...» la interruppi spero non troppo bruscamente con un "no" marcato e deciso. L'ultima cosa che volevo fare era creare problemi anche agli altri condomini.
«Preferisco il bar» accompagnai la frase con un sorriso che venne caldamente ricambiato.
«Comunque io sono Visoleja, più comunemente conosciuta come Vis, e lui è mio figlio, Dustin. Abbiamo ventitré e due anni e ci trovi qui al secondo piano» disse, indicando una porta sul corridoio destro mentre salivamo sull'ascensore. Ed io a mia volta ricambiai unicamente con informazioni indispensabili. Mi sentivo come alle presentazioni il primo giorno di scuola: nome, cognome, età, dove vivi e lavoro dei genitori. Omessi quest'ultimo dettaglio perché io i genitori non li avevo. E non mi andava di raccontare della morte di mio padre o della depressione post partum di mia madre che le aveva fatto perdere la nostra custodia. Quando ancora eravamo in due...

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