Capitolo 2

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Le giornate passavano lente in quel posto deprimente; la mattina presto ci svegliavano e ci portavano in gruppi verso i bagni per fare una doccia, poi colazione e di nuovo in cella. Nel primo pomeriggio venivamo portate nella mensa per il pranzo; delle sbobbe davvero immangiabili ma che con il tempo, per via della fame e della mancanza di alternative, mi abituai a mandare giù.
Per fortuna avevamo un momento di svago: l'ora d'aria. Ogni pomeriggio, verso le sei, ci permettevano di vagare come zombie nel cortiletto situato sul retro dell'edificio; c'era chi giocava a palla, chi si allenava e chi, con abile astuzia e senza farsi beccare dalle guardie, spacciava eroina alle carcerate visibilmente in astinenza. Feci una smorfia di dissenso nel vedere quella scena che, ormai, si ripeteva identica da settimane, attirando così l'attenzione della ragazza spelacchiata che, accovacciata in un angolo, aspettava le sue "prede" tossiche.

"Che vuoi tu? Cerchi rogne?"

Non le risposi, non meritava il mio tempo, e continuai ad osservarmi in giro come se nulla fosse. La donna, però, non sembrò voler mollare la questione.

"Hey, sto parlando con te. Credi di essere troppo perfetta per stare qui?"

Ancora una volta, non le diedi corda. Non avevo intenzione di scatenare un putiferio e ancora meno di farmi allungare la pena con stupide risse inutili.

"Che c'è? Hai paura di spezzarti le unghie, principessina?"

A quell'ultima provocazione non ci vidi più. Mi girai di scatto nella sua direzione, trovandomela a pochi centimetri di distanza; il suo alito caldo e disgustoso facilmente distinguibile nell'aria. Strinsi i pugni con talmente tanta forza da farmi diventare le nocche bianche, mentre il respiro si fece più pesante.
Ero abituata a fare a pugni; nella mia carriera avevo steso al tappeto diverse centinaia di rompi coglioni e questa sarebbe stata solo un altro numero da aggiungere alla lista, pensai. Schivai abilmente il primo colpo che provò a darmi, sorridendo soddisfatta nel vedere il suo sguardo sorpreso dai miei riflessi. Non reagii subito; mi piaceva vederla innervosirsi per via del mio atteggiamento. Era un qualcosa di soddisfacente da vedere.
Poi, presa dalla distrazione, ricevetti un pugno in pieno volto, portando il mio naso a sanguinare lievemente. Asciugai le gocce rosse con la manica della giacca mentre il mio sguardo, ora infuocato, si concentrò fisso sul suo.

"Hai scelto il nemico sbagliato."

Sussurrai poco prima di fiondarmi con prepotenza su di lei. Mi ci vollero tre pugni ben assestati per mandarla al tappeto, osservandola dimenarsi dal dolore mentre le altre intorno avevano formato un cerchio di urla istigatorie.
Due guardie raggiunsero di corsa l'ammasso di persone per controllare cosa fosse successo e, non appena mi videro davanti alla donna ancora stesa a terra, presero il manganello e mi colpirono con forza allo stomaco, prendendomi poi per i polsi e costringendomi a seguirli con passo veloce.
Il dolore improvviso al ventre non mi preoccupò come avrebbe dovuto; in quel momento provavo solo soddisfazione per la vittoria e quel duro colpo era solo un effetto collaterale.
Mi buttarono dentro una cella completamente sigillata, più piccola di quelle standard e senza finestra, in una sezione laterale della prigione. Mi resi conto di trovarmi in isolamento osservando la porta blindata e con una minuscola finestrella scorrevole. Fu in quel momento che percepii con insistenza il colpo subito in precedenza. Portai le mani allo stomaco e corrucciai il viso per il dolore, rannicchiandomi in un angolo della stanzetta. La luce, di un bianco accecante, era perennemente accesa e non ti permetteva di calcolare con precisione lo scorrere del tempo; cosa che a lungo andare avrebbe probabilmente portato alla pazzia.
Nel silenzio della mia solitudine, la mia mente non potè fare a meno di pensare a Shamira, al suo ultimo sguardo prima di essere trascinata via da lei, alla sua reazione alla sentenza, al suo corpo, ai suoi seni, alla sua...mi resi conto di stare divagando fin troppo quando iniziai a percepire un tenue calore al basso ventre. Mi portai le mani al volto e strofinai piano la superficie, massaggiando gli occhi e permettendo all'aria di penetrare prepotente attraverso le narici, riempiendo avide i polmoni.
Erano passate tre settimane dal mio arrivo qui; tre settimane di pura sofferenza. Avevo fantasticato più volte su quella Maria, lo ammisi a me stessa, ma nulla riusciva a togliere del tutto il mio interesse nei confronti di Shamira. Le avevo fatto del male, ne ero consapevole, ma, al di là dell'attaccamento fisico, sentivo che in qualche modo mi apparteneva, così come io appartenevo a lei. Questo però non escludeva la presenza di certi bisogni e in questo il mio corpo era fin troppo bravo a farmelo notare.
Cercai di ignorare la mezza erezione tra le mie gambe e presi a fissare il soffitto, iniziando ad immaginare cosa avrei fatto una volta uscita di lì. Di sicuro non avrei potuto contare su Trevor, me lo aveva detto forte e chiaro.
D'improvviso, i miei pensieri vennero interrotti da un bisbigliare poco distante. Mi avvicinai alla porta blindata per cercare di capire cosa si stessero dicendo le due guardie di turno.

"Allora, hai capito? Mi raccomando. Se ci beccano siamo fottuti."

"Sì, tranquillo. Faccio di guardia, tu non preoccuparti. Avvisami quando hai fatto."

Sentii i passi cauti farsi sempre più vicini, poi la porta della mia cella si aprì e, velocemente, si richiuse alle spalle della guardia; un uomo sulla quarantina, alto più o meno quanto me, i capelli scuri che lasciavano spazio alla fronte ben visibile, le spalle larghe, la barba perfettamente curata.
Mi alzai d'istinto non appena lo vidi, osservandolo con sguardo fisso e duro, in attesa di una sua parola. Lui si avvicinò con un sorrisetto inquietante verso di me, portandosi una mano ai pantaloni, stringendone il cavallo.

"Lo vuoi?"

"In genere lo do, non lo prendo."

La sua espressione si fece confusa, ma non prestò molta attenzione alla mia risposta beffarda e continuò il suo passo predatorio nella mia direzione. Avevo già avuto a che fare con questo tipo di gente al club, ma mai in prima persona.
Permisi alla mia postura di farsi più salda, come a volergli far capire che avrebbe fatto meglio a sloggiare, mentre lo vidi sorridere, mostrando i denti di poco trasandati.
Quando si fiondò su di me, lo respinsi abilmente, rispondendo a quel suo gesto con un pugno ben piazzato sullo zigomo; il giorno dopo avrebbe fatto parecchio male.

"Maledetta puttana, come ti permetti?"

Ringhiò aggressivo, estraendo il manganello con premura. Provai a parare i colpi, ma i suoi movimenti furono talmente rapidi e scoordinati da risultare un'impresa anche solo riuscire a prevederne la mira. Mi colpì al petto, allo stomaco, alle cosce, alle braccia, in pieno viso. Quando finalmente si fermò, dopo essermi accasciata a terra per il dolore, mi strappò con forza i pantaloni, lasciando scivolare con loro anche quelle fastidiose mutande, lasciandomi completamente nuda dalla vita in giù.
Fece una smorfia disgustata ma eccitata e tornò a sorridere in maniera quasi morbosa.

"Sei un obbrobrio della natura."

Commentò mentre una sua mano si mosse piano sul cavallo dei suoi pantaloni, slacciandone poi la zip con trepidante lentezza.

"Ma non ti priverò della gioia di provare il mio cazzo."

Si abbassò gli indumenti inferiori e si avvicinò ancora a me, portando il manganello a scontrarsi ancora una volta avido sul mio viso, costringendomi poi a indinocchiarmi davanti a lui.

"Succhialo, troia. E non pensare di usare i denti."

A quel suo ordine non ci vidi più; mi alzai di scatto verso di lui, atterrandolo, facendogli sbattere con forza il capo sul pavimento; sorrisi nel vedere la sua espressione divertita mutare in una di dolore. Il mio pugno fu rapido nel raggiungere il suo volto, così come il sorriso che mi si formò nel vederlo sanguinare.

"Ora non fai più il gradasso?"

L'uomo rise sonoramente, una risata simile all'isterico, poi estrasse un qualcosa da una delle tasche della giacca. Di colpo, una scarica attraversò tutto il mio corpo e, senza quasi rendermene conto, mi trovai faccia a terra, bloccata, mentre quella guardia prese a penetrarmi avida finché non raggiunse il suo culmine.
Si separò da me, tirò su col naso e si rivestì per poi sputarmi addosso e lasciare la cella fischiettando.
Rimasi immobile sul pavimento, apparentemente priva di emozioni, eppure una lacrima solitaria attraversò il mio volto.
In quel momento mi resi conto che il mio status, il mio potere non contavano nulla; in quel momento mi resi conto che lì dentro ero come tutte le altre: debole.

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