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Rimasi immobile, gli occhi fissi sul punto in cui poco prima si trovava il ragazzo. Ogni fibra del mio essere si sentiva intrappolata in quell'istante sospeso. Il fascicolo del caso giaceva a terra, appoggiato con cura, come se avesse assorbito ogni parola che era stata pronunciata. Le sue pagine, piegate e segnate da una notte insonne, sembravano sussurrare segreti che sfuggivano alla mia comprensione. "Chiunque stia facendo questo vuole cancellare qualcosa." Ogni frase si insinuava nel mio cervello, sollevando interrogativi che mi tormentavano. Mentre il silenzio avvolgeva la stanza, un brivido mi percorse la schiena. Mi chiesi se avesse ragione. Chiunque fosse l'autore di quei crimini, cosa stava cercando di cancellare?

Mentre mi preparavo per andare in centrale, cercai di convincermi che tutto ciò che avevo vissuto fosse solo frutto della mia immaginazione. "Era solo un sogno", ripetevo tra me e me, come se le parole avessero il potere di cancellare la realtà. Il riflesso nel vetro dello specchio mi osservava con uno sguardo scettico, e la tensione nelle mie spalle sembrava aumentare ad ogni respiro.

Indossai la giacca, la mente ancora immersa nei pensieri confusi, e uscii di casa, cercando di reprimere l'ansia che mi attanagliava. La strada era familiare, eppure ogni passo sembrava carico di un significato che non riuscivo a cogliere. "Solo un'altra giornata di lavoro," mi dissi, sperando di trovare la normalità nel caos che avevo vissuto.

Appena varcai la soglia della centrale, fui accolto dal solito trambusto familiare del luogo: gli agenti che si muovevano come formiche in un nido, le conversazioni animate che si intrecciavano nell'aria e l'eco dei telefoni che squillavano incessantemente. Il profumo del caffè appena fatto si mescolava con l'odore metallico delle attrezzature e dei documenti sparsi ovunque. Un ambiente frenetico, pulsante di vita e lavoro.

Sfilai tra i miei colleghi, ognuno assorto nelle proprie faccende, e mi diressi verso un uomo di mezza età che conoscevo bene. Era un collaboratore che sfiorava la pensione, i capelli grigi incorniciavano un viso segnato da anni di servizio. Mi avvicinai a lui, cercando di mascherare la mia ansia con un sorriso.

"Hey, ho bisogno di un favore." Dissi, cercando di mantenere un tono professionale.

Si girò, sollevando un sopracciglio mentre sorseggiava il suo caffè. "Noah, buongiorno! Ti vedo in forma." La sua voce era calda e familiare, e mi confortò per un attimo.

"Sì, grazie. Ho bisogno di una lista di tutti i centri accoglienza in zona,"

"Capito. Lo preparo subito." Iniziò a frugare tra i documenti sulla scrivania, mentre io lo osservavo, cercando di riordinare i miei pensieri.

Finalmente, il collaboratore tornò con un foglio di carta, porgendolo a me. "Ecco la lista." Disse, studiandomi con attenzione. "Spero possa esserti utile. Fai attenzione, Noah. Sembra che tu stia affrontando un caso complicato."

"Grazie." Risposi, il peso delle sue parole si unì all'incertezza che già provavo. Mi sentivo in bilico, come se la realtà stesse sfuggendo al mio controllo

Stavo per dirigermi verso l'uscita, cercando di schiarirmi la mente prima di mettermi in moto, quando la voce calda e rassicurante del capo del dipartimento, Harry, mi fermò. Si era appostato a qualche metro da me, e con un gesto della mano mi invitava ad avvicinarmi.

"Ehi, Noah!" chiamò, con quel tono familiare che trasmetteva sia autorità che cordialità. Harry era sempre stato una figura stabile, come un'ancora in mezzo alla tempesta di casi irrisolti e turni infiniti. Incarnava quella calma che ogni tanto speravo di riuscire a ritrovare.

Mi avvicinai a Harry, che mi accolse con uno sguardo di approvazione, stringendomi una spalla. "Ottimo lavoro, Noah." Mi disse, con quel tono che lasciava trasparire un misto di rispetto e affetto. "Abbiamo bisogno di gente come te qui dentro, capace di non mollare mai."

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⏰ Ultimo aggiornamento: Oct 31 ⏰

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