Capitolo 6

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- Non ti piace? -

🍣

Era lì davanti a me, sotto i miei occhi e mi pareva di poterlo stringere tra le mani.

Shoto, il mio Shoto.

In tv, con la mano - Dio, le sue belle dita lunghe e nodose come quelle di un pianista - avvinghiata a quella di Yayourozu, sorridevano. Sorridevano con quei denti bianchi, perfetti nelle bocche carnose, a contrasto con quelle pelli di ceramica.

Il Sole batteva sui loro capelli e gli baciava i volti. Benedetti perfino dalla volontà divina. Scossi la testa, un crescendo di dolore mi riempì il petto. Lo sentivo abbattersi dentro di me come una tempesta. La notte del giudizio. Peccato che io non fossi lì con lui, che davanti a me non avessi il diavolo, ma la persona che amavo più di chiunque altro e che lui guardasse un'altra, a chilometri di distanza da me, a fiumi, cieli, anni, stelle, di distanza. Shoto stava sorridendo a un'altra, le teneva la mano, la stringeva a sé.

Percepii la frattura del mio cuore. Faceva così male che avevo il desiderio di infilarmi una mano nel petto e strapparmi gli organi dal corpo come avrei fatto con dei macchinari medici. Non volevo sentire il cuore pompare, non volevo sopravvivere a quella delusione, non volevo tornare al presente. Volevo chiudere gli occhi, volevo che qualcuno mi scrollasse, che aprendo gli occhi Shoto mi sorridesse e mi dicesse che andava tutto bene, che era stato un incubo e basta.

Volevo che mi cullasse, volevo sentire il suo odore.

Ne avevo bisogno.

Lo sguardo scivolò più in basso. Lettere, frasi, parole. Provai a rimetterle in ordine, a dargli un senso. Shoto Todoroki, il famoso hero è stato paparazzato con la sua amante? Sotto in grassottello, c'era il nome di lei. Mi sentii logorare dentro. Le unghie affondarono nella pelle, mi graffiai con forza all'altezza del petto, arricciai la maglietta. Mi mancava il respiro. La casa vorticava e la tv mi pareva fatta di carta, la realtà mi pareva un illusione e-

«Ohi.»

Una mano mi strattonò. Nessuna delicatezza, uno strappo deciso nel velo che mi ero steso attorno. La pellicola venne via.

La voce di Katsuki mi piombò addosso. Mi pareva vento. Le sue dita mi tenevano i fianchi, il suo petto mi sovrastava. Boccheggiai. Non mi resi conto di star salendo, le mani che si avvinghiavano ad un tessuto che non era quello della mia t-shirt.

«Io…» guardai lontano. Avevo il suo viso davanti, le sue guance diafane, la bocca, ma non riuscivo a materializzarlo nella testa. Era ombreggiato. «Io… Shoto…»

«È un bastardo il tuo Shoto.» gli sentii dire, ma dovetti leggergli il labiale, perché non ero certo di averlo capito. Sbarrai gli occhi sconvolto.

Un tempo la volgarità di Katsuki non mi avrebbe fatto nulla, - a parte farmi diventare le guance come pomodori -  ora mi colpiva. Avevo passato troppo tempo con una persona - con tante persone - che non avrebbero mai usato quei vocaboli, di conseguenza, ora ne restavo turbato. Katsuki usava le parolacce come si usa il sale sul cibo. Sempre. Non gli avevo mai sentito dire una frase senza aggiungerci qualcosa di volgare nel mezzo.

Eppure, mi parve sincero. Addolorato, perfino.

Ma lo tenni per me. Abbassai gli occhi, le punte dei miei piedi scalzi si erano congelate a contatto col pavimento. La pentola rovesciata giaceva a pochi metri da noi. Ferma, immobile, statica. Il riso si era riversato a chicchi sul parquet e aveva lasciato macchie appiccicose.

Avevo fatto un casino. Un vero e proprio casino. Come aveva fatto Shoto con i nostri sentimenti, o meglio, con i miei.

«È solo una sciocchezza.»

Mission, BakudekuDove le storie prendono vita. Scoprilo ora