Capitolo 2 - William

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Un nuovo inizio. Un nuovo inizio. Un nuovo inizio. Continuavo a ripetermelo come un mantra sperando che il suono di quelle parole potesse spegnere l'eco dei ricordi. Eppure, nonostante fosse iniziata la fase di discesa e Atlanta si faceva sempre più vicina, continuavo a sentirmi isolato, in una bolla.

Quello che stava succedendo, stava succedendo a me, al contempo ero fuori da me stesso e guardavo la mia vita svolgersi come un film proiettato su un vetro appannato. Anche se mi trovavo ormai a 3919 miglia da quella che era stata casa mia fino a dodici ore prima, avevo la costante sensazione di essere spettatore della mia vita.

Avvicinai il viso al finestrino. Atlanta si apriva sotto di me, frammentata, un mosaico di tessere grigie e luminose. Volevo imprimermi nella mente ogni dettaglio per ancorarmi alla realtà e convincermi che quel nuovo inizio fosse reale.

La città si estendeva come un oceano di edifici, grattacieli e strade senza fine e senza memoria. Niente più prati infiniti che ondeggiavano al vento e sfumavano nel cielo d'Irlanda, né il mare mosso di Laytown, con la sua spiaggia compatta e ventosa sulla quale il cielo si rifletteva e le maree lasciavano pozze scintillanti. Al loro posto, blocchi, linee e cemento: l'ordine rigido di una città che dominava ogni spazio, incasellando persino il verde in rettangoli senza respiro. Riconobbi il Piedmont Park e il Centennial Olympic Park, piccoli polmoni verdi che sembravano resistere alla città. Oasi perse in un deserto di cemento. Atlanta, vista dall'alto, era un mondo estraneo, privo della delicatezza aspra e quieta a cui ero abituato. L'azzurro limpido del cielo sembrava lontano, distante da quel tempo sospeso e malinconico della contea di Meath dove ogni cosa parlava la lingua del vento e delle maree.

Oscillavo tra quei due mondi: intrappolato tra i ricordi da cui volevo fuggire e l'ignoto che si spalancava davanti a me.

Strinsi i pugni, la pressione degli anelli che mi costellavano le dita mi restituì una forma di ancoraggio, un appiglio fisico per ricordarmi che ero lì, presente. Non era quello il momento di abbandonarsi alla malinconia.

Quando l'aereo atterrò e la voce dell'assistente di volo ruppe il susseguirsi dei miei pensieri, mi colpì una punta di esitazione. Ma mi alzai e mi diressi verso l'uscita.

Appena fuori dal velivolo misi piede sull'asfalto del Hartsfield-Jackson e fui investito da un'ondata di voci, rumori, movimenti e odori estranei. I passi incessanti, gli annunci gracchianti e le risate provenienti da ogni direzione comprimevano l'aria riempiendone ogni spazio. Tutto correva a un ritmo che non mi apparteneva e mi toglieva il respiro. Persino il vento aveva una consistenza diversa: densa, appiccicosa.

Una volta fuori dall'aeroporto mi diressi verso la fila interminabile di taxi che attendevano il passeggero di turno. Mentre la custodia che conteneva l'unica chitarra che avessi mi sbatteva ritmicamente contro i glutei, il rumore delle rotelle della valigia, che trascinavo sull'asfalto, si confondeva con il chiacchiericcio concitato della gente attorno a me.

Quanto caos. Troppo caos. Era una musica stonata che continuava a crescere e mi stritolava come una coperta troppo stretta. Perché avevo scelto Atlanta?

Una domanda che mi posi retoricamente. Conoscevo bene la risposta.

Non cercavo un nuovo inizio qualsiasi: volevo una vita completamente diversa, una che fosse l'opposto di quella che avevo appena lasciato.

Riuscii finalmente ad aggiudicarmi un taxi, l'abitacolo impregnato di un misto di vaniglia e tabacco stantio. Estrassi dalla tasca della giacca in finta pelle il bigliettino con l'indirizzo di quella che sarebbe stata la mia nuova dimora e lo lessi al tassista. Quello, senza troppe formalità, ingranò la prima e partì, indifferente verso la mia cadenza irlandese. Quando il taxi si immise sulla corsia di destra, il mio corpo si irrigidì per un istante: mi ci sarebbe voluto del tempo per abituarmi a un intero mondo al contrario.

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